Donald Crowhurst (Colin Firth), velista amatoriale, prese parte alla Golden Globe Race del Sunday Times del 1968, con l’intento di diventare la prima persona nella storia a circumnavigare il globo in solitaria, senza soste. Un’idea folle e scriteriata che lo porterà a salpare alla bell’e meglio, con una barca approssimativa, e ad abbandonare i figli e la moglie Claire (Rachel Weisz) pur di inseguire il suo avventato sogno a bordo del trimarano Teignmouth Electron.

«Ho deciso di andare perché se fossi rimasto non avrei più avuto pace»: è questa la premessa piuttosto avventurosa e balorda da cui muove la storia vera di Crowhurst, portata al cinema da James Marsh, il regista de La teoria del tutto (2014), con esiti però piuttosto rigidi e monocordi. Queste storie sono infatti un’arma a doppio taglio: da un lato offrono molti spunti cinematografici, perché si sa che la stasi garantita da un viaggio in mare è un dispositivo narrativo colmo di libertà e potenzialità, ma dall’altro bisognerebbe saperle gestire al meglio, non scambiando l’assenza di eventi sostanziali per una semplice scorciatoia ma, al contrario, rafforzando se possibile ancor di più la drammaturgia (il miglior modello recente è All is Lost con Redford del bravo Chandor). In questo caso invece tutto è all’insegna della grigia approssimazione e della telefonata sciatteria: il dramma del protagonista, così come i suoi sogni/incubi, sono privi di mordente, Firth è non pervenuto e fuori parte nei panni di questo Ulisse moderno, angosciato e tramortito, e anche la regia non si schioda mai dal minimo sindacale, insinuando solo di rado il tema di una natura matrigna che obbliga l’uomo a tagliare i fili, ad occultare e occultarsi. Pure la sequenza onirica che ruota intorno ai cavalli, sulla carta notevole, è tirata via e sprecata con notevole faciloneria, a riprova dell’approccio sottotono di tutta l’operazione. Perniciosa anche la gestione dei flashback e il finale che scomoda il concetto di “grazia” (il titolo originale è The Mercy), con evitabili e posticce derive visive che scimmiottano a vuoto Terrence Malick. David Thewlis si limita a timbrare il cartellino nel solito ruolo da comprimario, indegno del suo grande talento.
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