Nuvole di maggio
Mayis Sikintisi
Durata
130
Formato
Regista
Un regista cinematografico (Emin Ceylan) ha ormai Istanbul come centro della sua vita e della sua attività lavorativa. Tornando al paese natale imbastisce un'opera autobiografica incentrata intorno a familiari e conoscenti.
Il punto di partenza è lo stesso di Sotto gli ulivi (1994), cruciale film della carriera dell'iraniano Abbas Kiarostami, da cui muove il regista turco Nuri Bilge Ceylan alla sua opera prima, denotando fin da subito un buon talento e una mano ispirata nel delineare il proprio mondo espressivo fosco e rabbuiato. Si tratta, a conti fatti, di una pellicola privatissima e personale, che utilizza un clima estremamente colloquiale, specialmente se riferito al vissuto concreto del regista, per mettere in campo una riflessione emotiva e formale sulle proprie immagini ma anche sul proprio paese natale, la Turchia, condannata a ridefinire la propria identità post-Ataturk, volente o nolente. Il tasso di autoriflessività nel cinema del regista si conferma dunque già elevato e a tutto tondo, ma altrettanto efficace è anche il lavoro di Ceylan su quelle peculiari atmosfere cupe e angosciose che torneranno nel suo cinema futuro. Corredate fin d'ora da un senso di smarrimento di matrice antonioniana, che apparirà però più strutturato e meglio dosato nel successivo Uzak (2002), e che, in questo caso, risulta ancora acerbo, fisiologicamente esile e non in grado di imporsi con la dovuta coscienza e conoscenza di sé e dei propri mezzi.
Il punto di partenza è lo stesso di Sotto gli ulivi (1994), cruciale film della carriera dell'iraniano Abbas Kiarostami, da cui muove il regista turco Nuri Bilge Ceylan alla sua opera prima, denotando fin da subito un buon talento e una mano ispirata nel delineare il proprio mondo espressivo fosco e rabbuiato. Si tratta, a conti fatti, di una pellicola privatissima e personale, che utilizza un clima estremamente colloquiale, specialmente se riferito al vissuto concreto del regista, per mettere in campo una riflessione emotiva e formale sulle proprie immagini ma anche sul proprio paese natale, la Turchia, condannata a ridefinire la propria identità post-Ataturk, volente o nolente. Il tasso di autoriflessività nel cinema del regista si conferma dunque già elevato e a tutto tondo, ma altrettanto efficace è anche il lavoro di Ceylan su quelle peculiari atmosfere cupe e angosciose che torneranno nel suo cinema futuro. Corredate fin d'ora da un senso di smarrimento di matrice antonioniana, che apparirà però più strutturato e meglio dosato nel successivo Uzak (2002), e che, in questo caso, risulta ancora acerbo, fisiologicamente esile e non in grado di imporsi con la dovuta coscienza e conoscenza di sé e dei propri mezzi.