La rivolta dei contadini ungheresi del 1890 viene raccontata con danze e canti che simboleggiano la voglia di rivalsa e il desiderio di libertà e giustizia, tanto quanto la realtà di sconfitta e miseria inevitabili.



Film che inaugura una nuova fase della carriera del regista ungherese Miklós Jancsó, il quale tralascia il rigore stilistico delle sue prime opere, ma non abbandona la riflessione sull'implacabilità della Storia, destinata a non lasciare scelta e scampo. Le tematiche sono le stesse del trittico composto da I disperati di Sandor (1966), L'armata a cavallo (1967) e Silenzio e grido (1968), contraddistinte solamente da una connotazione ideologico-politica più accesa. A variare però è la poetica con la quale questa riflessione viene condotta: il film è infatti un continuo flusso, ancora governato da lunghi e quasi impercettibili piani-sequenza, di simbolismi e di musiche, la cui connotazione spesso diegetica rende ancora più curiosa e surreale l'operazione. Un musical politico-storico, tanto affascinante e curioso a tratti, quanto, alla lunga, inconcludente e fumoso. Premio per la miglior regia al Festival di Cannes.
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