Nel 1848 i partigiani per l'indipendenza ungherese devono affrontare la reazione delle truppe austriache: la loro guerriglia continua ininterrotta, ma la conseguenze saranno terribili.

Potente e implacabile film con cui l'ungherese Miklós Jancsó si presentò alla notorietà internazionale, mostrandosi come un autore rigoroso ed elegante, debitore di certe tendenze della Nouvelle Vague, rilette in chiave assolutamente personale. L'opera è un susseguirsi di lunghi piani-sequenza, che sfumano l'uno nell'altro, creando così un “unicum” compatto in cui i vasti paesaggi, esaltati dal Cinemascope e ripresi spesso in campi lunghissimi, diventano, proprio per la loro vastità, una contrapposizione al destino che non permette variazioni e vie di fuga ai personaggi. Lo stile è così allo stesso tempo magniloquente – e visivamente affascinante – ed estremamente rigoroso ed essenziale, come dimostra per esempio l'assenza di musiche, con la colonna sonora affidata esclusivamente ai suoni diegetici della campagna e degli spari. La ricostruzione storica assume i toni della tragedia furiosa e inevitabile, ed è proprio la grande maestria stilistica a trasmettere l'inquietudine e l'angoscia di fondo. Inaugura una trilogia proseguita da L'armata a cavallo (1967), sulla lotta tra menscevichi e bolscevichi, e Silenzio e grido (1968), sulle ripercussioni della Prima guerra mondiale. Presentato in concorso al Festival di Cannes.
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