Mentre tenta faticosamente di trovare il suo posto all’Università di Oxford, lo studente Oliver Quick (Barry Keoghan) viene attratto nel mondo dell’affascinante e aristocratico Felix Catton (Jacob Elordi), che lo invita a Saltburn, l’eccentrica tenuta di famiglia, per un’estate indimenticabile.

A tre anni di distanza dal discreto successo raggiunto con il sopravvalutato Una donna promettente (premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale), Emerald Fennell torna alla regia, alzando ulteriormente l’asticella del proprio cinema. Se l’opera prima della regista, attrice e sceneggiatrice britannica, per sua stessa ammissione, era da considerarsi un “Popcorn movie”, un film per il grande pubblico, con Saltburn l’ambizione sembra quella di voler inscrivere nelle immagini del proprio cinema un profondo segno di autorialità.  Attraverso alcune interessanti scelte artistiche, tra cui il claustrofobico formato 4:3, la scenografia e la fotografia, entrambe sufficientemente curate, la macchina da presa della Fennell ci restituisce un’estetica old fashioned, capace di mostrare il perbenismo di facciata di un mondo aristocratico i cui protagonisti sono un gruppo di giovani studenti iscritti ad Oxford nei primi anni 2000. L’intrusione estiva del goffo e asociale Oliver nell’eccentrica tenuta di famiglia del suo ricco e affascinante amico Felix assume le fattezze di una vera e propria “interazione biologica” in cui un autentico parassita si inserisce all’interno di un corpo ospitante cercando di assumerne il controllo. Ma la descrizione di questo sadico processo di assimilazione si scontra con un vuoto di significato abbastanza irritante. Sembra quasi che la Fennell ci voglia scandalizzare attraverso sequenze volutamente inquietanti ma che non abbia mai il coraggio di osare fino in fondo nell’analisi critica dei suoi personaggi e del contesto socioculturale nel quale questi si muovono. È soprattutto durante le sequenze più estreme e disturbanti del film che la regista non riesce a rinunciare ad un’estetica comoda e superficiale, di facile fruizione da parte dello spettatore. Al di là dei tanti possibili riferimenti (da Il talento di Mr. Ripley a Parasite, ma possiamo anche pensare a Il servo di Joseph Losey), l’impressione che lascia la visione di Saltburn è quella di un’opera costruita a tavolino, fatta apposta per provocare, piacere e inorridire. Una “pornografia dello shock” che non ha il coraggio di andare oltre un formalismo fin troppo (com)piacente. Da sottolineare a ogni modo la buona performance di Barry Keoghan che mostra tutto il suo talento mimetico nell’impersonare tutte le sfumature della conturbante personalità del protagonista.
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