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Come Leos Carax è diventato il regista-divo più schivo e maledetto del cinema europeo 

Il cinema di Leos Carax - Workshop Live il 15 e 16 gennaio e in replica nei sette giorni successivi alla diretta



«Non penso che i film siano dei sogni. È l’esperienza della proiezione a esserlo» (Leos Carax)



«Cosa pensa di Carax?»
«Gli auguro di avere coraggio» (Jean-Luc Godard)



Leos Carax, pseudonimo di Alex Christophe Dupont, contiene già nel suo nome d’arte una suggestione puramente cinematografica: l’anagramma del suo vero nome di battesimo, Alex, e della parola Oscar, come se nel ribattezzarsi avesse voluto tenere insieme realtà e finzione, aderenza al dato e suggestione dorata in grado di trasfigurare la realtà attraverso la lente purissima e al contempo deformente del cinema. Lo si può leggere a tutti gli effetti come “le Oscar a X”, una sorta di versione carica di mistero e incognite di “and the Oscar goes to”, in cui il nome originario sopravvive come baluginio e riflesso autobiografico alquanto fioco e intermittente (lo stesso, a pensarci bene, avverrà in molti film del regista e in tantissimi suoi alter ego, quasi tutti interpretati dall'attore feticcio Denis Lavant). 

Nato nei dintorni di Parigi, Carax è figlio di Joan Osserman-Dopunt, critica cinematografica e giornalista americana, e di Georges Dupont, giornalista franco-americano. Negli anni '70 entra in contatto con il mondo dei Cahiers du Cinéma per breve tempo. Dopo gli esordi come critico cinematografico, nel 1980 riesce a realizzare il suo primo cortometraggio, Strangulation Blues, di diciassette minuti, con cui vince il Gran Premio al Festival Internazionale del cinema giovanile di Hyères nel 1981 e realizza quello che è di fatto il primo vagito compiuto del suo cinema futuro: una divagazione notturna dove la forza luministica ed espressionista delle luci e del sonoro danno vita a una sorta di ufo malinconico a cavallo tra le notti parigine e quelle americane, come in modo icastico e folgorante sintetizzava già il prologo.



Il film successivo, Boy Meets Girl (1984), è il suo vero esordio e vede protagonista quello che diventerà il suo attore feticcio, Denis Lavant. Il film viene presentato all’interno della Settimana Internazionale della Critica del Festival di Cannes e porta al regista il Prix de la Jeunesse e una nomination come miglior opera prima ai César. La protagonista femminile della storia è Mireille (Mireille Perrier), ripudiata dal suo amante. Si getta in strada, dove conosce Alex (Denis Lavant), un aspirante regista, girovago, ai margini e con tendenze suicide. Un incontro casuale tra due persone entrambe reduci da fallimenti sentimentali si tramuterà in un intricato rapporto.

Boy Meets Girl indicherebbe, in teoria, il grado zero di un intreccio narrativo telegrafico: ragazzo incontra una ragazza, si mettono insieme e via. È chiaro però che l'esordio di Léos Carax faccia di questa formula un uso iconoclasta e provocatorio, a partire dalla scelta del titolo. Il suo esordio, come tutto il cinema successivo di Carax, evita la linearità così come la semplicità, evoca suggestioni contemporanee dentro un tessuto romantico oscuro e bohémien. Il bianco e nero dell'opera prima del regista transalpino vive di un decadentismo prossimo alla posa, ovviamente compiaciuto pur nella confezione di assoluta raffinatezza. Carax si piace moltissimo, getta fumo negli occhi suoi e dello spettatore, ci tiene a essere il pupillo prima di tutto di se stesso ed erige, immediatamente, la mitologia propria e del nuovo cinema francese, con la fotografia di Jean-Yves Escoffier chiamata rivaleggiare con le suggestioni primordiali di tanto cinema muto, altro nodo chiave del cinema di Carax.




«Il motore del film è il cinema, ma il carburante è la vita… ciò che definiamo vita non è lo stato del mondo, ma i sentimenti. Il cinema è la mia isola, da cui posso guardare più facilmente la vita. Sono molto grato di aver trovato un mondo da citare, e tutti i miei film sono stati realizzati in virtù di quell’amore» (Leos Carax)


In seguito Carax gira Rosso sangue (1986) con Denis Lavant, Michel Piccoli e Juliette Binoche, continuando a perfezionare il suo stile dal fortissimo simbolismo e dalla grande forza espressiva. L'avvicinarsi della cometa Halley alla Terra coincide con un'epidemia di STBO, virus che colpisce tutti coloro che fanno l'amore senza un coinvolgimento emotivo che vada oltre quello dei sensi. Tra sconnessioni e riverberi mescolati in modo magistrale ed evocativo, l'opera seconda di Carax sembra quasi un potenziamento del suo esordio, non meno forzatamente intellettuale nello stile ma molto più efficace e calibrato. A stupire è il furore selvaggio con cui si rincorrono gli omaggi al cinema del passato e la coerenza magniloquente che il regista fa sua per dar vita a questo incubo da fine dei tempi. A prendere il sopravvento in Rosso sangue è un lirismo così insistito e voluto da riuscire a travolgere lo spettatore e a rapirne il cuore e la sospensione dell'incredulità richiesta, anche se il gioco vale puntualmente la candela, non è di certo poca. Letteralmente magnifico e da antologia del cinema contemporaneo il piano-sequenza che ha per protagonista il brano Modern Love di David Bowie (e c’è anche un’apparizione di Hugo Pratt, il disegnatore di Corto Maltese).



Il punto di non ritorno della carriera di Carax, nonché lo spartiacque decisivo per mettere a punto nell’immaginario della cinefilia mondiale la sua aura di follia ma anche di coolness visionaria, colta ma anche naïf, fuori da ogni margine e bordo, è il successivo Gli amanti del Pont-Neuf (1991), sempre con Denis Lavant e Juliette Binoche, arrivato dopo un enorme sforzo produttivo che lo impegnò per diversi anni e considerato a tutti gli effetti I cancelli del cielo del cinema francese. Nello scenario peculiare del Pont-Neuf, storico ponte parigino, il clochard Alex (Lavant) e una studentessa d'arte con un occhio bendato di nome Michèle (Binoche, compagna di Carax anche nella vita al tempo delle riprese) si conoscono, si amano e trascorrono la vita insieme nel tormento del loro amore randagio. Sono loro il cuore di un film maledetto, ripudiato, frutto dell'ossessivo compiacimento manierista dell'autore e di qualche spropositato sogno barocco di troppo. Eppure, nonostante il sentore di disgrazia che il film si porta addosso (in realtà, col senno di poi, potrebbe anche essere paradossalmente un valore aggiunto), Gli amanti del Pont-Neuf è un'opera che ragiona sulle forze ancestrali dell'amore e della solitudine, imbastendone una singolare epica dei bassifondi, ed è anche il film che porta a delle estreme e irreversibili conseguenze l'idea di romanticismo di Carax, facendola coincidere, come qualcuno ha avuto a dire su di lui, col bruciarsi le ali alla ricerca dell'assoluto, in una congiuzione ideale tra il mito di Icaro e l'eterno enfant prodige dalla spirale divistica fatalmente interrotta.

 

Lo sguardo del regista muove infatti dal basso e sempre in direzione del basso si indirizza, eccede e va incontro a una masochista e consapevole autodistruzione, non frena davanti a nulla, punta il suo obiettivo con ostinata disperazione e, in qualche modo e nonostante tutto, lo raggiunge. In questo senso, un'ode alla magnifica vanità dello sforzo d'autore (Carax lavorò su set completamente ricostruiti, Senna compresa) e alla necessità, per il cinema postmoderno, di sporcarsi realmente le mani con delle catastrofi autentiche e non sempre derivative (si pensi alla visita notturna al Louvre, o ai rimandi a  L'Atalante di Jean Vigo). Il film di fatto stroncò la carriera a Carax, ridimensionandone il futuro e le belle speranze accumulate fino a quel momento.



Otto anni dopo è il momento di Pola X (1999), per la critica un vero flop, e il capitolo in assoluto più involuto, masturbatorio e appannato della sua parabola. Nel 2007 realizza Merde, segmento del film collettivo Tokyo!, film a episodi realizzato con Michel Gondry e Bong Joon-ho, prima di fare ritorno finalmente al lungometraggio nel 2012 col potentissimo Holy Motors, una grande riflessione sul corpo dell’attore e sul passato, il presente e il futuro del cinema, con un occhio a una riflessione in chiave performativa e postmoderna sugli attori del cinema muto, ancora una volta. Proprio in Tokyo! Carax introduce invece Monsieur Merde, personaggio chiave del suo cinema e uomo uscito dalle fogne, fondamentale per la sua rinascita di uomo e di regista, che tornerà di prepotenza in Holy Motors con una compiutezza maggiore, ben oltre l'humour respingente, sgradevole e a tinte nerissime di quel segmento. 



In Holy Motors un uomo d'affari (Denis Lavant) a bordo di una limousine trascorre ventiquattr'ore prendendo le sembianze più disparate, vivendo vite diverse e una miriade di situazioni stranianti e fuori dal comune. A guidarlo, l'assistente Céline (Edith Scob). Il ritorno al cinema di Léos Carax dopo un lungo silenzio è quanto di più simile a un viaggio al termine della notte (si guardi il nome dell'accompagnatrice del protagonista), una girandola di situazioni che, come il personaggio di Denis Lavant, è pronta ad assumere le incarnazioni più multiformi. Nel prologo c'è lo stesso Carax che apre una parete con un chiavistello e sembra inoltrarsi in prima persona nel proprio stesso film: un preludio a ciò che si vedrà, di folgorante narcisismo. Il resto dell'operazione non è da meno: inserti metafisici sulla performance capture, modelle rapite, sequenze antologiche e un ritrovato gusto per l'invenzione dissennata e spericolata guidato dallo spirito maudit di un tempo. Quello di Carax è un film sulla pluralità delle forme dell'immaginario contemporaneo ma anche sulla solitudine dell'immagine globalizzata, destinata a reiterarsi in forme spiazzanti e forse anche arcaiche per sopravvivere a se stessa. Si parte con immagini sullo studio del movimento del corpo umano di Étienne Jules Marey, pioniere del pre-cinema, e si giunge a un parcheggio/cimitero di automobili che parlano tra loro, riflettendo sulla possibile fine che potrebbero fare: una conclusione tragica e grottesca allo stesso tempo, che sottolinea come questo sia anche un grande film sulla morte (dell'attore e del cinema tutto, forse). Edit Scob, proprio nel finale, torna a indossare la maschera che l'aveva resa grande in Occhi senza volto di Georges Franju e, non a caso, è soltanto nel "ritorno alla realtà" che si troverà a indossare proprio un volto che non è il suo. Tra Pirandello, iconografia contemporanea e un eterno ritorno dai contorni nietzschiani, un grande film filosofico e capace di parlare della contemporaneità con grande spessore. 



L'ultimo film di Carax Annette, premio per la miglior regia al Festival di Cannes 2021 (dov'è stato il film d'apertura), racconta di Henry (Adam Driver) e Ann (Marion Cotillard), due artisti di successo: stand-up comedian lui, cantante lirica lei, la cui relazione e carriera subiranno un improvviso cambiamento con la nascita della prima figlia, Annette. «So May We Start?»: è lo stesso Leos Carax che, un po’ come nel precedente e potentissimo Holy Motors, dà il via all’azione della pellicola, prendendo in prestito anche il titolo della prima canzone degli Sparks, autori della colonna sonora che attraversa questa vera e propria opera-rock. La musica infatti è onnipresente, tanto che col passare dei minuti ci si dimentica che il film è (quasi) tutto cantato: la sceneggiatura, ridotta all’osso, sta tutta lì, in canzoni che non definiscono solo la psicologia dei personaggi, ma proprio i dialoghi che si scambiano tra loro. C’è tantissima carne al fuoco nel sesto lungometraggio di Carax e una miriade di riferimenti (King Vidor, tra questi) che riescono ad affascinare e a irritare allo stesso tempo, in pieno stile Carax. Annette è un lungometraggio rapsodico, squarciato da sprazzi di una potenza visiva impressionante, che però Carax finisce per allungare a dismisura innamorandosi anche troppo delle sue immagini. Il fascino e le suggestioni sono comunque talmente forti da farci subire un bombardamento audiovisivo che raccoglie le performance dei personaggi in scena, il rapporto tra realtà e finzione, il tema dell’identità e quello della famiglia, metanarrazione, eros e thanatos e tanto altro ancora. C'è anche un gusto per la provocazione "fanciullesca" e addirittura regredita all'infanzia, malsano e bambinesco ma in maniera puntualmente macabra e sardonica, che riporta alla memoria le frasi pronunciate su Carax dal critico dei Cahiers Serge Toubiana nel documentario Mr. X, a Vision of Leos Carax di Tessa Louise-Salomé, sintesi ideale di tutto il suo cinema.


«Carax è un bambino del cinema, che rielabora l'infanzia stessa del cinema. Come tale, sente il bisogno di sperimentare in modo primitivo» (Serge Toubiana) 





Davide Stanzione

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