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Far East Film Festival 24 – Il racconto dell'ottava giornata: a Udine è il Kitano Day, il Maestro premiato con il Golden Mulberry
Il Far East Film Festival si avvia alla conclusione della ventiquattresima edizione e lo fa con l'intervento (virtuale) del maestro "Beat" Takeshi Kitano. La consegna del Golden Mulberry alla carriera al poliedrico artista giapponese, con successiva proiezione del capolavoro Sonatine, è stato l'evento catalizzatore dell'ottava giornata. 

TAKESHI KITANO

Attore, regista, sceneggiatore, produttore e comico giapponese, Takeshi Kitano vive da vicino i momenti di violenta protesta della sinistra nel suo paese negli anni Sessanta e per caso, in un periodo della sua vita in cui svolge molti lavori, si ritrova a sostituire un attore in un teatro in cui lavora come cassiere. In Giappone, in qualità di comico e popolare personaggio di uno show televisivo, diventa molto popolare con lo pseudonimo di "Beat" Takeshi. Nel 1983 interpreta il sergente Hara in Furyo (Merry Christmas Mr. Lawrence) di Nagisa Oshima. Debutta alla regia con Violent Cop (Sono otoko, kyōbō ni tsuki) nel 1989, film del quale, come d’abitudine per i suoi lavori, è anche attore. Seguono Boiling Point (3-4 x jūgatsu, 1990), Il silenzio sul mare (Ano natsu, ichiban shizukana umi, 1991), molto apprezzato e premiato in patria, e Sonatine (1993), vera e propria lezione di messa in scena. Nel 1997 vince il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia con Hana-Bi (Hana-bi), opera maestosa e struggente che ne consacra il talento come autore anche in Occidente. Regista dotato di un’impronta estetica forte e personale, costituita da un approccio personale ai generi e da un ricorso alla violenza che non rinuncia a ellissi e momenti contemplativi, nel 2000 gira negli Stati Uniti Brother mentre nel 2002 e nel 2003 realizza Dolls e Zatoichi, entrambi in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia (col secondo vince il Leone d’argento alla miglior regia). Due anni dopo presenta al Lido un film “a sorpresa”, l’autobiografico Takeshis’, in cui ritorna alla comicità degli esordi mettendo da parte il susseguirsi di opere più radicali e autoriali. Partecipa in seguito al film collettivo A ciascuno il suo cinema (Chacun son cinéma, 2007) per i sessant'anni del Festival di Cannes e nello stesso anno firma Glory to the filmmaker! (Kantoku Banzai!), seguito da Achille e la tartaruga (Akiresu to kame, 2008). Nel 2010 dirige il primo capitolo di una trilogia di genere sulla mafia giapponese, la Yakuza, ovvero Outrage (Autoreiji), cui seguono Outrage Beyond (Autoreiji: biyondo, 2012) e Outrage Coda (2017). Tra le sue prove d’attore si segnalano anche Izo (2004) di Takashi Miike, Tabù - Gohatto (Gohatto, 1999), ultimo film di Oshima, e Ghost in the Shell (2017), adattamento americano del manga di Mamoru Oshii diretto da Rupert Sanders.

Al termine del pezzo la nostra recensione del capolavoro assoluto Sonatine, mentre sono stati tantissimi i titoli in competizione presentati al Teatro che vi andiamo a presentare uno a uno!  


TALES FROM THE OCCULT

In tempi di oscurità, vedi gli altri più chiaramente. Si chiude così l'ultimo progetto co-firmato da Fruit Chan che anno scorso a Udine aveva presentato il suo ben più convincente e chiacchierato Coffin Homes (2021). Al suo fianco Fung Chih-chiang che, dopo aver mosso i primi passi nel cinema come assistente alla regia, aveva esordito alla regia nel 2012 con The Bounty e Wesley Hoi qui invece al suo esordio assoluto. Tales from the Occult rientra chiaramente nella sotto-categoria di horror a episodi in un tris di cortometraggi che mescolano le minacce urbane alla satira più cupa. In The Chink di Wesley Hoi la cantante Yoyi Koo (Cherry Ngan) si trasferisce in un nuovo appartamento e torna a vedere fantasmi del suo passato. Dead Mall, diretto da Fruit Chan, è senza dubbio il più interessante e divertente dei tre mettendo sin da subito al centro le vicende di un influencer esperto in investimenti, Wilson Leung (Jerry Lamb). Il potere mediatico va incontro alle sue responsabilità dando vita a un horror fortemente realistico che si diverte nel destrutturare la propria linea narrativa. Il protagonista ricorda che “non c’è opportunità senza crisi, non c’è rinascita senza morte”,  ma ben presto le cose sfuggono di mano e inizia a sgorgare il sangue. L’ultimo episodio è The Tenement di Fung Chih-chiang: tutto si svolge in un vecchio condominio senza ascensore, dove la scrittrice Ginny (Sofiee Ng) scorge una figura spettrale nella tromba delle scale. Mantenendosi curiosamente leggera sul fronte del paranormale, l'operazione sembra decisamente rivedibile anche se è già previsto un sequel, Tales from the Occult 2, con le proposte di Frank Hui (co-regista di Trivisa), Doris Wong (New Turn) e Daniel Chan (Sifu vs Vampire).

REROUTE

Si rimane in territorio thriller-horror con il filippino Reroute di Lawrence Fajardo. La storia è quanto di più banale ci sia: Trina e Dan sono una coppia sposata di Manila (lei bella e infastidita, lui irascibile e orgoglioso) che si reca in vacanza nella campagna natale di lui. Costretti ad allungare la strada per un blocco stradale, Dan sceglie di prendere una scorciatoia per una strada della sua infanzia. L'auto si rompe e i due vengono "soccorsi" dal burbero ex militare Gemo. Minaccioso e di poche parole, Gemo vive con la silenziosa moglia Lala in una casa collegata dal mondo solo da una vecchia radio. Trina e Dan rimangono ospiti forzati di Gemo in attesa dell'arrivo di un meccanico; ma il padrone di casa sembra avere altri piani... Seppure non particolarmente innovativo il thriller di Fajardo è denso di temi interessanti: lo scontro culturale tra città e campagna si mescola a una storia di vendetta e ossessione, che ha a sua volta le radici nella frustrazione sessuale e nel fanatismo religioso. Il bianco e nero "sabbioso" di Joshua Reyles dà al film un alone di ineluttabilità e Fajardo è piuttosto abile a tenere alta attenzione e coinvolgimento, coadiuvato da una grande prova di John Arcilla, recentemente premiato a Venezia per On the Job di Erik Matti. Purtroppo gli altri interpreti non sono all'altezza, soprattutto i due protagonisti, che interpretano le scene di sesso con la stessa intensità di una pubblicità di profumi.

WHAT TO DO WITH THE DEAD KAIJU?

Miki Satoshi torna al festival con What to Do with the Dead Kaiju?, parodia dei film di kaiju (mostri). Al centro della narrazione il personaggio interpretato da Yamada Ryosuke, membro della boy band Hey! Say! JUMP!, che assiste ai maldestri tentativi del governo di sbarazzarsi di un gigantesco kaiju collassato e morto improvvisamente. Il film fa chiaramente il verso all’iconica serie Godzilla, in particolare al fortunato Shin Godzilla di Anno Hideaki del 2016. What to Do with the Dead Kaiju? è un film spensierato che però non può che finire nel dimenticatoio di questa edizione del festival per la mancanza sostanziale di idee fresche. Anche se i primi e più apprezzati film di Miki avevano lo stesso stile di umorismo surreale e rispetto alle tante commedie giapponesi il suo approccio sia originale nella direzione di una comicità più asciutta e bizzarra, l'ultimo lungometraggio ha il sapore di una scommessa persa. 

RETURN TO DUST

Già apprezzato a Berlino, Return to Dust di Li Ruijun è un dramma della povertà ambientato nella campagna cinese del Gansu, terra natale del regista che spesso vi ambienta le sue opere. Focus del film è una coppia di contadini, frutto di un matrimonio arrangiato, interpretata dal non professionista Wu Renlin e dall'attrice Hai Qing. All'inizio imbarazzati e distanti, i due imparano ad amarsi con completa devozione mentre affrontano in totale povertà la dura vita del Gansu. L'uomo è un lavoratore stoico che col suo sangue mantiene in vita un signorotto locale, la donna è timida e acciaccata e si apre solo in presenza del marito. Le prove affrontate dalla coppia sono sempre più dure, a partire dalla ciclica demolizione e ricostruzione della propria casa, fino ad arrivare in una tragica escalation a un lugubre epilogo. Return to Dust non avrà la confezione esplicitamente propagandistica di altre opere più mainstream, ma dietro alle sue stupende inquadrature e al letargico incidere emerge una "pornografia della povertà" manipolatoria che usa due autentici martiri per raccontare una storia di resilienza tesa più al mantenimento dello status quo che a un'onesta critica sociale. Non fatevi fregare.


CAUGHT IN TIME

L’azione parte rapidissima in Caught in Time, secondo lungometraggio del regista hongkonghese Lau Ho-leung. Quando, nel 1990, il capitano di polizia Zhong Cheng (Wang Qianyuan) viene trasferito nella città di Changpu, si imbatte subito nel ladro Falcon Zhang (Daniel Wu), nel bel mezzo di una rapina. Ambientato prima della grande diffusione delle telecamere di sorveglianza e basato sulla storia vera del rapinatore e assassino Zhang Jun, Caught in Time si sbizzarrisce in una serie di elaborate scene di rapine condotte alla luce del giorno da ladri sfacciati e spavaldi. La polizia nel frattempo è incessantemente sulle loro tracce, raggiungendo a volte livelli di rettitudine esilaranti e in altri momenti affrontando grandi pericoli senza mollare. Lau Ho-leung, che ha lavorato nel reparto sceneggiatura di thriller di Johnnie To e Teddy Chen, mette in scena potenti scene con allestimenti complicati, alta tensione e lunghe riprese che coinvolgano gli spettatori. Oltre a sfruttare le competenze del cinema d'azione hongkonghese, nel film il poliziotto e il malvivente sono ispirati ai film di Hong Kong e se alcune scelte di regia sono senza dubbio orientate a soddisfare la censura cinese, molti elementi del film riescono ancora ad attingere alle tradizioni hongkonghesi degli antieroi del grande schermo e, a volte, a far sembrare i criminali più umani del risoluto capo poliziotto che li insegue.

THE DEVIL'S DECEPTION E IL FUORI CONCORSO

Chiude la giornata il film di Kabir Bhatia che ci racconta la storia di Hajar: perseguitata costantemente da incubi e incinta
, la protagonista è accompagnata dal papà del piccolo, Arshad, verso una magione dove poter partorire in tranquillità. Quando arrivano li accoglie Mak Ju, donna elegante ma inquietante, con il giardiniere Nasir, figura massiccia e silenziosa. Pian piano Hajar esce di senno mentre il momento del parto si avvicina: ispirandosi in maniera fin troppo palese a Rosemary’s Baby, ma anche a L’esorcista e Sinister, il veterano e prolifico Bhatia ha provato a creare un efficace racconto di folk horror che però non brilla certamente entro l'amplissima gamma di film di genere malesiani presentati negli ultimi anni al Far East.

Il programma Fuori Concorso al Visionario, abbastanza snobbato dalla concomitanza con la premiazione di Kitano al Teatro, ha visto in primis l'interessante Streetwise di Na Jiaozuo (un vero peccato averlo programmato in quella fascia oraria). Il film è il suo esordio, ma è stato capace di vincere il premio per la migliore attrice al Pingyao Int’l Film Festival 2021 e soprattutto a partecipare al festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard. Nel primo pomeriggio invece è stata presentata la prima italiana di Citizen K, documentario biografico francese di Yves Montmayeur su Kitano con il quale vi lanciamo la recensione di Sonatine, vero grande protagonista di un venerdì costruito attorno al Maestro.   


SONATINE 


Murakawa (Kitano) è un boss della yakuza ormai stanco dell'attività criminale e sul punto di ritirarsi. Il capo dell'organizzazione lo costringe però a portare a termine un'ultima operazione, e lo spedisce a Okinawa per mettere fine ai dissidi tra due clan rivali. Ben presto, però, la missione si rivelerà essere una trappola ben architettata, dalla quale sarà complicato uscire vivi. Giunto alla quarta esperienza registica, il Maestro torna a raccontare, dopo Il silenzio sul mare (1991), le vicende di un gangster, stavolta alle prese con un universo che non gli appartiene più e al quale vorrebbe sfuggire. Ma, a differenza di quanto avvenuto nelle opere precedenti, il genere dello yakuza-eiga viene destrutturato e i suoi codici filtrati e riletti alla luce della poetica autoriale del regista, il quale raggiunge uno straordinario equilibrio significativo tra forma e sostanza narrativa, mescolando inoltre generi e codici diversi, dalla commedia nera al noir, passando per le accortezze e i ritmi tipici del cinema d'autore. Il film, scandito da continue ellissi, si staglia in un tempo diegetico immobile, all'interno del quale l'esistenza dei protagonisti è messa in stretta relazione con la morte, quanto mai necessaria e ricercata in maniera attiva: nelle sequenze di gioco sulla spiaggia c'è tutto il desiderio di "fermare" il tempo per godersi quegli ultimi momenti prima di una fine ormai certa. Aggressivo e lieve allo stesso tempo, Sonatine declina con lucida follia l'impalpabile percezione dell'esistere, e produce inusitate voragini di senso che, pur richiedendo una visione attiva e partecipata, sanno poi ripagare lo spettatore con una meritata ricompensa. Splendide le musiche di Joe Hisaishi che fanno da perfetta colonna sonora alla chiusura del Kitano Day.

A cura di Marco Lovisato e Andrea Valmori 
Maximal Interjector
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