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Festival del Cinema Africano, d'Asia e America Latina: la top 5 della trentunesima edizione
Con la premiazione di Soula di Salah Issaad e Amparo di Simón Mesa Soto si è conclusa la 31a Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina. Tanti altri i film premiati e, ancor di più, quelli apprezzati dal pubblico milanese (e online). Eccovi i nostri preferiti!

5) Whether The Weather Is Fine di Carlo Francisco Manatad (Filippine / Francia / Singapore / Indonesia / Germania / Qatar)


Bizzarro ibrido tra coming of age e film apocalittico, Whether The Weather Is Fine narra del viaggio di Miguel tra le macerie della sua Tacloban, colpita da un tifone. Sulla strada incontra e, successivamente si libera della madre e della fidanzata, impegnate in un percorso di ricostruzione personale diverso da quello del ragazzo. Il film di Carlo Francisco Manatad stupisce, in primis, per gli innesti surreali che alimentano una realtà tragica, ma ancora viva. Un carosello di figuranti e situazioni al limite dell’irreale (processioni religiose con figure cristologiche improvvisate, orde di bambini gioiosi, canti e festeggiamenti natalizi fuori luogo, una colonna sonora pop, stranamente moderna e allegra), stabilisce il tono di una storia, e un paese, sfaccettato. Il tutto rende ancor più sincero il cammino intrapreso dal protagonista (come anche quello della fidanzata e della madre), il quale vorrebbe sfruttare la nave che porta a Manila come opportunità per una nuova vita. La suddetta nave si configura quindi, nel finale, come una sorta di arca di Noè, popolata esclusivamente da chi rappresenta il futuro della nazione. A ben vedere però, il viaggio oltreoceano potrebbe simboleggiare una fuga utopica dalla difficile realtà filippina e, di conseguenza, i giovanissimi passeggieri dell’imbarcazione potrebbero essere Bimbi Sperduti diretti verso l’Isola che non c’è.

4) Soula di Salah Issaad (Algeria / Francia / Qatar / Arabia Saudita)


Il lungometraggio d’esordio di Salah Issaad, il quale si è portato a casa il premio più ambito del Festival, porta lo spettatore a scontrarsi con una storia basata su fatti reali e dal forte impatto emotivo. Soula è, per stessa ammissione del regista, un road movie nella quale la cinepresa non esce mai, esattamente come la nostra protagonista, dai veicoli che la trasportano. Nel tentativo di trovare un tetto dove rifugiarsi insieme alla sua bimba neonata, Soula viene trascinata da una macchina all’altra. Al cambio di vetture durante il corso del film, non consegue un mutamento dell’approccio del regista, il cui uso della macchina da presa, in maniera claustrofobica e il più possibile incisiva, trasforma le portiere, nelle sbarre della prigione in cui è rinchiusa Soula. La maternità e, soprattutto, la mancanza di un marito, la trasformano in un rifiuto della società, pura merce di cui approfittarsi per il semplice motivo che si è in diritto di farlo. Sicuramente da segnalare la prova attoriale di Soula Bahri, “costretta” a rivivere gran parte degli eventi di quella giornata che si configura come simbolo di tutte le difficoltà e soprusi vissuti nella sua vita. A differire dagli avvenimenti reali è ovviamente il finale, doloroso e al contempo poetico, la quale stempera quella tensione che, essendo troppo caricata negli atteggiamenti degli aguzzini, appare come il vero problema della pellicola. In alcuni momenti infatti, il difficile equilibrio ricercato da Salah Issaad, tra il coinvolgimento emotivo (legato all’ipotesi di realtà dei fatti) e il puro intrattenimento (basato appunto sulla scrittura dei personaggi) pende in favore di quest’ultimo, inficiando però solo in parte, quello che risulta essere un esordio sentito, efficace ed incoraggiante.

3) Twist à Bamako di Robert Guédiguian (Francia)


Il maestro Robert Guédiguian posa il suo sguardo sulla tentata rivoluzione socialista all’alba dell’indipendenza in Mali, nel 1962. In una nazione attraversata da correnti di pensiero opposte, la causa socialista si lega a quella dell’indipendenza, creando delle distorsioni politiche che mettono in evidenza la difficile situazione dell’Africa durante la decolonizzazione. Accade che il twist, genere per eccellenza legato alla rivoluzione (e in particolare a quella socialista), venga invece considerato anti-rivoluzionario in quanto estirpa la tradizione maliana, a favore dell’immoralità e della perversione della cultura del mondo occidentale. I sentimenti di rivoluzione pacifica sono condivisi dal protagonista Samba (Stéphane Bak), il quale, conosciuta la giovane Lara (Alicia Da Luz Gomes), sposata con un uomo contro la sua volontà proprio a causa delle leggi religiose in atto, capirà come la società da lui sognata, basata sulla libertà e la condivisione socialista, sia ancora un’utopia. Il regista francese riesce ad orchestrare una love story genuina e sincera che si nutre della leggerezza e della spensieratezza della musica rock degli anni sessanta. L’eccezionale colonna sonora che può contare su brani francesi, maliani ma anche su alcuni capolavori ascoltati in tutto il mondo come Twist And Shout dei Beatles e I Get Around dei Beach Boys è particolarmente efficace nel coinvolgere emotivamente anche gli spettatori estranei alla situazione maliana dell’epoca. Nonostante in certi momenti, a causa di alcune storie interessanti ma secondarie, sembri venir meno la compattezza dell’opera, l’obiettivo di mostrare le disastrose conseguenze del colonialismo e il messaggio di speranza in un futuro migliore, nonostante nel 2012 la situazione sia forse peggiorata, emerge con chiarezza.

2) Amparo di Simón Mesa Soto (Colombia / Svezia / Qatar)


Esattamente come l’altro vincitore ex-aequo del Concorso Lungometraggi “Finestre sul mondo”, Amparo è un lungometraggio d’esordio. Il titolo, prende il nome dell’assoluta protagonista, il 4:3 invece inquadra il suo volto, unico punto catalizzatore dell’attenzione dello spettatore. È attraverso di esso che comprendiamo il suo amore per il figlio (arruolato a forza nell'esercito per essere inviato in una zona di guerra molto pericolosa), il disprezzo nei confronti dell’istituzioni i quali, “rapiscono” Elias, ma accettano volentieri un riscatto per liberarlo, la stanchezza causata dal lavoro e la tristezza derivata dalle vessazioni alla quale è costantemente costretta, in primis dalla madre che non perde mai occasione per rimproverargli la cattiva educazione dei nipoti. Non stupisce quindi che durante lo scorso Festival di Cannes, Sandra Melissa Torres, sia stata premiata con il Premio Rising Star alla miglior attrice emergente. Il suo volto prismatico cattura la luce e l’oscurità che la circonda e la restituisce al pubblico con una performance memorabile, incorniciata, come detto, con grande maestria dal regista che, in più di un’occasione, sceglie di utilizzare l’attrice come specchio degli avvenimenti, mostrandoceli quindi in una forma filtrata e maggiormente ricca.

1) The Year of the Everlasting Storm di Jafar Panahi, Anthony Chen, Malik Vitthal, Laura Poitras, Dominga Sotomayor, David Lowery, Apichatpong Weerasethakul (Stati Uniti / Iran / Cile / Thailandia / Regno Unito / Singapore)


Dopo esser stato presentato nella scorsa edizione del Festival di Cannes, il FESCAAAL ha avuto l’opportunità di ospitare una delle opere più profonde e poetiche della scorsa annata: The Year of the Everlasting Storm, dallo sforzo condiviso, ma separato, di Jafar Panahi, Anthony Chen, Malik Vitthal, Laura Poitras, Dominga Sotomayor, David Lowery, Apichatpong Weerasethakul. Il primo e più evidente motivo della sua complessità, sta nell’essere una raccolta di sguardi fortemente autoriali e, conseguentemente, molto personali. Non ci si stupisce quindi di sentir parlare un fantasma nel segmento di David Lowery, non sorprende la forza (elettro)statica trasmessa da Apichatpong Weerasethakul e risulta naturale che Laura Poitras continui ad investigare gli Stati Uniti post-11 Settembre. Sta qui il primo elemento che unisce, in maniera mirabile, i vari contenuti: essi narrano delle storie che, nonostante siano tutte ambientate temporalmente durante il primo lockdown pandemico, sono iniziate prima e finiranno dopo. Crolla quindi l’assunto (sbagliato) che il periodo passato in confinamento sia una così forte imposizione sulla vita, da riuscire addirittura a ingabbiarla. La quotidianità è mutata completamente ma i processi vitali non possono essere fermati: alla madre del regista Jafar Panahi mancherà sempre la sua nipotina, le radici delle difficoltà del matrimonio della coppia cinese risalgono a ben prima della pandemia, i giornalisti sono stati, sono e sempre saranno osservati dai propri governi e, ovviamente, gli insetti saranno, per sempre, attratti dalla luce e dal calore. La scelta di collocare queste storie in uno specifico momento, non è tanto dettata dalla necessità, quanto da una precisa volontà: aumentare l’oggettività intrinseca nei racconti documentari e aggiungere “verità” a quelli di finzione. Trovato il filo che li lega, non resta che lasciarsi trasportare dall’umanità, dalla sincerità, dalla integrità e dalla poesia che emerge da ognuno degli episodi.

A cura di Emma Onesti ed Enrico Nicolosi 
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