Antonio Dorigo (Rossano Brazzi) è un architetto quarantottenne facente parte dell’alta borghesia milanese. Frequenta una casa di incontri, dove si imbatte e si innamora della giovanissima prostituita Laide (Agnès Spaak). I due iniziano un gioco al massacro sentimentale, e, tra gelosia e ossessione, per entrambi risulterà difficile voltare pagina.

Gianni Vernuccio e i suoi sceneggiatori scelgono di adattare l’omonimo romanzo di Dino Buzzati, in cui la relazione tossica e ossessiva tra i due protagonisti, diversissimi per età, classe sociale e stile di vita, arriva a creare un cortocircuito sentimentale che fa cadere Antonio e Laide in un circolo vizioso quasi impossibile da spezzare. Se lui scopre infatti per la prima volta l’attrazione romantica con la ragazza, e ne resta assuefatto, neanche lei è immune a certe attenzioni e premure, che la portano a sfruttare l’architetto per convenienza, ma a ricercarlo quando lui decide di rompere i rapporti, addirittura rinfacciandogli di non averle mai proposto il matrimonio. Entrambi sono vittime e carnefici, che vivono il rapporto come una transazione monetaria, strascico ideologico di un boom economico che ha portato alla capitalizzazione di ogni tipo di bene, incluso quello affettivo. In questo senso, il titolo dell’opera è tragicamente cinico: non c’è spazio per l’amore in questa storia fatta di inganni e manipolazioni. Antonio si dichiara innamorato, ma si vergogna di mostrarsi in pubblico con Laide, si sente a disagio a invitarla a casa sua e la caccia da lì in malo modo, sentendosi in diritto su di lei per via della sua capacità economica: in definitiva, lei non sarebbe altro che un pezzo della sua collezione, con il difetto di non sottostare al volere di lui. Laide, del resto, ha altre armi per tenere a sé l’uomo, e Agnès Spaak riesce a riportare efficacemente il suo ibridismo tra candore e malizia. Potere di acquisto e potere d’attrazione si scontrano impietosamente, e nessuno degli sfidanti termina vittorioso o quanto meno soddisfatto. La regia è perlopiù composta e a tratti troppo didascalica, ma sa comunque osare nei passaggi più onirici (in cui un chiarore quasi accecante porta il protagonista fuori dalla realtà razionale) o in cui la gelosia di Antonio diventa più intensa e dolorosa (la scena della lettura delle lettere degli altri amanti di Laide, su tutte). E sa anche regalare inaspettati momenti di grande ilarità (il pranzo con il cagnolino come unica compagnia). L'ultima parte è molto diversa rispetto al libro di partenza, eliminando un ambiguo lieto fine per una conclusione all’apparenza più lineare, ma in realtà ancora più beffarda: una porta sbattuta in faccia che funge sia da sberleffo al matrimonio borghese che da pietra tombale di un amore che non è mai stato, se non nella mente obnubilata di un uomo che ricercava nell’altrui giovinezza un simulacro di senso in un mondo ormai disilluso, dove il gap generazionale e sociale ha creato una crepa incolmabile. Un film che, seppur imperfetto, andrebbe riscoperto, in cui una Milano splendidamente fotografata fagocita ogni speranza romantica.
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