Otto momenti nella vita di Andrej Rublëv (Anatolij Solonitsyn), il più grande pittore di icone russo, nato nel 1360 e morto nel 1430.

Si apre con un volo, uno dei più grandi capolavori della storia del cinema sovietico: un uomo si aggrappa a un rudimentale pallone aerostatico, taglia le funi e si libra nell'aria ma, molto presto, inizia a perdere quota e si schianta al suolo. Subito dopo viene inquadrato un cavallo nero che si torce sulla schiena e fatica a rialzarsi. Sembra di assistere a un esempio di montaggio delle attrazioni di Sergej Ėjzenštejn, il grande maestro del cinema russo (La corazzata Potëmkin del 1925) che Tarkovskij riesce qui a eguagliare e, forse, a superare. Un volo che simboleggia le ambizioni (impossibili?) di un regista che si terrà sempre ad alta quota nel corso del suo cinema successivo, senza mai crollare a terra, a differenza del suo personaggio (e del cavallo che lo rappresenta). Diviso in 8 capitoli, a cui si aggiungono il prologo e l'epilogo, Andrej Rublëv non è un semplice film biografico o un racconto tradizionale, ma una grandiosa operazione in cui le immagini – grazie al montaggio, alla luce, ai movimenti di macchina – formano un complesso mosaico percettivo che rimanda sempre a qualcosa di più grande rispetto a ciò che può apparire a prima vista. La forma si fa contenuto, e permette di comprendere, ben più di ogni parola, i tormenti del pittore d'icone e il suo graduale percorso verso la più completa solitudine. È un'opera sul senso dell'arte, sulle inquietudini che essa si porta dietro e sulla sua capacità di prevalere su qualsiasi cosa, politica compresa: anche per questo non piacque alle autorità sovietiche, che ne ritardarono l'uscita di sei anni. Per amplificare al massimo la portata dell'arte di Rublëv, nel finale, Tarkovskij mostra le sue icone a colori dopo che la pellicola è stata costantemente fotografata da un bianco e nero rigoroso e raggelante. Un film mastodontico, in cui ogni capitolo (e, forse, ogni sequenza) è, allo stesso tempo, una grandissima lezione di cinema a sé stante e una perfetta parte di un tutto che funziona magnificamente grazie all'armonia dell'insieme. Grande prova di Anatolij Solonitsyn nei panni del protagonista. Presentato fuori concorso al Festival di Cannes del 1969.


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