Alexander (Erland Josephson), un ex attore esperto di estetica e di storia delle religioni, vive insieme alla famiglia a Gotland, un'isola del Baltico. Mentre fervono i preparativi della sua cena di compleanno, si sente un forte boato che fa tremare l'intera casa: la televisione annuncia che è in atto una devastante catastrofe nucleare a cui è impossibile sfuggire. Alexander allora si raccoglie in preghiera e fa un sacrificio a Dio: rinuncia a tutto quello che ha, a patto che la vita possa tornare serena com'era prima.

L'ultimo film di Andrej Tarkovskij si chiude con un'immagine che ricorda direttamente l'inizio del suo primo lungometraggio, L'infanzia di Ivan (1962): in entrambe c'è a terra un bambino, mentre la macchina da presa punta verso il cielo risalendo il tronco di un albero. È una curiosa simmetria che incornicia la sua intera carriera e fa capire molto di quanto Sacrificio sia un'opera testamentaria a tutti gli effetti. Tarkovskij, vittima di una lunga malattia, sentiva che sarebbe stata la sua ultima pellicola e ha inserito all'interno tutti gli elementi stilistici tipici del suo cinema: dettagli di opere pittoriche (L'Adorazione dei Magi di Leonardo, contemplata come le icone di Andrej Rublëv del 1966); la musica classica dell'amato Johann Sebastian Bach; l'alternarsi del colore e del bianco e nero; le riprese lunghe e i dialoghi esistenziali e filosofici (Nietzsche è citato già nelle prime battute). Opera di alto spessore contenutistico e formale, Sacrificio è, allo stesso tempo, una parabola spirituale e un atto di accusa contro un mondo che ha perso ormai ogni tipo di fede. Un film sulla parola («in principio era il Verbo») che associa il silenzio del bambino con la purezza, e in cui, non a caso, il protagonista fa il voto di smettere di parlare per salvare la sua famiglia. È forse il film più teatrale di Tarkovskij, qui fortemente influenzato da Čechov e da Strindberg, e la sua macchina da presa si tiene spesso a distanza dai personaggi. I momenti pienamente cinematografici, però, ci sono eccome, e sono momenti che non si dimenticano: gli incubi, la levitazione, l'incredibile piano-sequenza in cui la casa s'incendia. Sequenze di una bellezza straordinaria, valorizzate dagli ottimi giochi di luce di Sven Nykvist (abituale collaboratore di Ingmar Bergman, e si vede). Ancora, fino all'ultimo, Tarkovskij è riuscito a usare la sua cinepresa per scolpire il tempo (titolo di un suo celebre saggio). Presentato al 39° Festival di Cannes, dove vinse il Grand Prix Speciale della Giuria, il premio per il miglior contributo artistico e il premio della giuria ecumenica.


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