Beau (Joaquin Phoenix da adulto, Armen Nahapetian da giovane), uomo pieno di ansie e preoccupazioni, decide di intraprendere un viaggio per andare a trovare sua madre, Mona (Patti LuPone da adulta, Zoe Lister-Jones da giovane). Il tragitto, costellato di situazioni paradossali e personaggi bizzarri, diventa ben presto teatro di un'assurda avventura dai molteplici scenari, che arriva a far dubitare Beau della propria stabilità mentale.

Quanto può sopportare dal punto di vista emotivo un essere umano? Potrebbe essere questo un punto di partenza per inquadrare il folle progetto dello sceneggiatore e regista statunitense Ari Aster, al suo terzo lungometraggio dopo Hereditary – Le radici del male (2018) e Midsommar – Il villaggio dei dannati (2019). Mescolando Kafka e Freud, la delirante spirale di traumi e paranoie costruita da Aster ha un preciso disegno di fondo, che spinge sul pedale della visionarietà per dare vita a un agghiacciante quadro su irrazionalità, negazione del libero arbitrio, assurdità dei rapporti umani e dei comportamenti socialmente accettati. I quattro macro scenari che fanno da sfondo alla storia sono lo specchio dello stato psichico di Beau: da un'aberrante distopia metropolitana si passa a un presente patinato e perturbante, per poi essere immersi in un ancestrale mondo da fiaba in compagnia di misteriosi "orfani del bosco" (con tanto di segmento cinematografico che contamina animazione e live action) prima dell'ultimo trip nella mente di Beau, sottolineato dall'architettura della casa materna che rimanda ai meandri del subconscio. Non senza inutili ridondanze e scelte pacchiane nell'esasperare un complesso edipico all'ennesima potenza, Aster annulla la linearità della narrazione giocando sulla ciclicità della storia e su vertiginosi salti temporali, partendo dalla nascita e arrivando a un simbolico, quanto estremo, ritorno nell'utero materno. Convincono senza riserve la dimensione teatrale della vicenda, tutta incentrata sul concetto di rappresentazione (com'è evidente nell'epilogo) e la disintegrazione grottescamente iconoclasta dell'istituzione famigliare, due temi tipici del cinema di Ari Aster. Decisamente più fuori fuoco le intuizioni che riguardano la ricerca della verità sulla figura paterna, con tanto di parossistiche visioni falliche di cui avremmo fatto volentieri a meno. Phoenix, perfetto nell'essere in stato quasi catatonico per tutto il film, interpreta un bambino mai cresciuto, "perfettamente al sicuro" perché bloccato in uno stadio di regressione infantile (e non a caso de-mascolinizzato) tra sogno e ricordo, passato e futuro, desiderio di affermazione e umiliante sottomissione. Un film di indubbio fascino, a tratti irrisolto e aggrovigliato su se stesso forse più del dovuto, da vivere come un trip psicanalitico incalzante e fuori di testa, che non lascia in posizione marginale un'interessante riflessione sull'universalità delle paure contemporanee.
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