Behemoth
Bei xi mo shou
Durata
95
Formato
Regista
All'interno di alcune miniere, immerse in un'atmosfera di solenne operosità, le faticose attività umane si susseguono una dopo l'altra, stritolando quell'umanità che ha il compito di eseguirle, costretta a rimanere vigile e sveglia, ma anche a entrare in contatto con sostanze tossiche che ne causeranno la morte da lì a poco.
Nelle miniere della Mongolia contemporanea, il videoartista cinese Zhao Liang orchestra una messa in scena di ferocia singolare, girando con una troupe assai limitata (appena quattro unità) e ricorrendo a un digitale più che mai abbagliante. Il regista cinese guarda alla Divina Commedia di Dante, un parallelo esplicitato in molti passaggi del film dalla diretta voce dell'autore, ma sopra ogni altra cosa restituisce l'alienazione e il disfacimento di una realtà vergognosa e impressionante. La grandezza di Behemoth è però soprattutto nel suo impianto estetico simmetrico e geometrico: le immagini restituiscono un paesaggio mostruoso e statuario, coi camion in fila, le distese di verde che fanno capolino solo ai margini delle inquadrature, il carbone le cui tonalità cromatiche si fanno sempre più marcate tramutando l'opera in un dramma in presa diretta dai colori foschi e mesti. Un documentario ma anche un film visionario, disperato, messo in scena attraverso sequenze possenti, senza mai scadere verso una deriva estetizzante. Una denuncia vigorosa che approda a un finale davvero notevole: un'immersione senza precedenti nelle città fantasma della Cina contemporanea, enormi agglomerati urbani costruiti soltanto per alimentare la bolla della speculazione edilizia ma di fatto incredibilmente deserti. Una scena che sembra pura metafisica e che invece è la tragica realtà, in drammatica sintonia coi tempi e con le prime crepe che perfino la rampante economia cinese ha iniziato a palesare. In concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, dove avrebbe meritato un posto di riguardo nel palmarès.
Nelle miniere della Mongolia contemporanea, il videoartista cinese Zhao Liang orchestra una messa in scena di ferocia singolare, girando con una troupe assai limitata (appena quattro unità) e ricorrendo a un digitale più che mai abbagliante. Il regista cinese guarda alla Divina Commedia di Dante, un parallelo esplicitato in molti passaggi del film dalla diretta voce dell'autore, ma sopra ogni altra cosa restituisce l'alienazione e il disfacimento di una realtà vergognosa e impressionante. La grandezza di Behemoth è però soprattutto nel suo impianto estetico simmetrico e geometrico: le immagini restituiscono un paesaggio mostruoso e statuario, coi camion in fila, le distese di verde che fanno capolino solo ai margini delle inquadrature, il carbone le cui tonalità cromatiche si fanno sempre più marcate tramutando l'opera in un dramma in presa diretta dai colori foschi e mesti. Un documentario ma anche un film visionario, disperato, messo in scena attraverso sequenze possenti, senza mai scadere verso una deriva estetizzante. Una denuncia vigorosa che approda a un finale davvero notevole: un'immersione senza precedenti nelle città fantasma della Cina contemporanea, enormi agglomerati urbani costruiti soltanto per alimentare la bolla della speculazione edilizia ma di fatto incredibilmente deserti. Una scena che sembra pura metafisica e che invece è la tragica realtà, in drammatica sintonia coi tempi e con le prime crepe che perfino la rampante economia cinese ha iniziato a palesare. In concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, dove avrebbe meritato un posto di riguardo nel palmarès.