
Le temps qui reste
Le temps qui reste
Durata
81
Formato
Regista
Romain (Melvil Poupaud) scopre di avere poco tempo da vivere a causa di un male incurabile. Rifiuta la terapia, abbandona il compagno (Christian Sengewald) e decide di recarsi dall'amata nonna (Jeanne Moreau). Durante il viaggio, incontra Jany (Valeria Bruni Tedeschi), al centro di un matrimonio sterile, che gli chiede un figlio.
Il momento più elevato della notevole trilogia del lutto concepita da Ozon, che comprende il precedente Sotto la sabbia (2000) e Il rifugio (2009). È, probabilmente, anche il film migliore del regista francese: l'atmosfera di morte ricalca dinamiche fassbinderiane (anche se mai in maniera sciocca o derivativa), e si serve con grande spessore del classico immaginario queer ormai indispensabile per decifrare il suo cinema. Non a caso il protagonista, omosessuale, è un fotografo di moda di eterea e raffinata bellezza, ruvidamente interpretato da Melvil Poupaud, già “ninfo” per Rohmer in Un ragazzo, tre ragazze del 1996. Itopoi consueti nella filmografia di Ozon si intrecciano a un confronto diretto con la morte, che si riversa nelle considerazioni – trattenute, alterate e implose – del personaggio nei confronti del paesaggio che lo circonda e degli altri esseri umani con cui entra in contatto. E non è un caso che, nelle relazioni con il queer di cui sopra, sia proprio la nonna (Jeanne Moreau, straordinaria) a rappresentare la figura a cui Romain tiene maggiormente. Ozon si copia e al contempo si reinventa, per un film che di dolore si compiace, di dolore si (auto)fotografa e di dolore muore. E il finale, splendido, non può lasciare indifferenti.
Il momento più elevato della notevole trilogia del lutto concepita da Ozon, che comprende il precedente Sotto la sabbia (2000) e Il rifugio (2009). È, probabilmente, anche il film migliore del regista francese: l'atmosfera di morte ricalca dinamiche fassbinderiane (anche se mai in maniera sciocca o derivativa), e si serve con grande spessore del classico immaginario queer ormai indispensabile per decifrare il suo cinema. Non a caso il protagonista, omosessuale, è un fotografo di moda di eterea e raffinata bellezza, ruvidamente interpretato da Melvil Poupaud, già “ninfo” per Rohmer in Un ragazzo, tre ragazze del 1996. Itopoi consueti nella filmografia di Ozon si intrecciano a un confronto diretto con la morte, che si riversa nelle considerazioni – trattenute, alterate e implose – del personaggio nei confronti del paesaggio che lo circonda e degli altri esseri umani con cui entra in contatto. E non è un caso che, nelle relazioni con il queer di cui sopra, sia proprio la nonna (Jeanne Moreau, straordinaria) a rappresentare la figura a cui Romain tiene maggiormente. Ozon si copia e al contempo si reinventa, per un film che di dolore si compiace, di dolore si (auto)fotografa e di dolore muore. E il finale, splendido, non può lasciare indifferenti.