Alla morte della madre, una donna (Fakhri Khorvash) si trova a vivere con il secondo marito della defunta e i due figli adottivi dell’uomo. La difficile convivenza, guidata dall’avidità, li porta a ordire piani per eliminarsi a vicenda. 

L’esordio di Reza Aslani è un classico del cinema iraniano prima della rivoluzione islamica. Il film, sotto le vesti di thriller algido e surreale, è un ritratto efficacissimo delle tensioni sociali del periodo. Pur essendo ambientato negli anni ‘20, infatti, la causticità con cui la pellicola mette in scena la decadenza aristocratica non può non essere interpretata anche come una previsione della caduta monarchica che avverrà appena tre anni dopo l’uscita. E sono proprio la decadenza e l’apparenza della società che vengono messe alla berlina da uno stile barocco che non riesce a nascondere la sterilità di una comunità ormai alla frutta: la bellissima scenografia è attraversata da lampi di violenza che ne spezzano l’eleganza e ne disvelano la superficialità, così come la scelta di girare quasi esclusivamente all’interno della casa (una reale abitazione storica del centro di Teheran) trasmette alla perfezione la claustrofobia provata dalla protagonista, impossibilitata a uscirne per via della sua disabilità. Le uniche scene di esterni (escluso il finale) sono i segmenti in cui la servitù e le donne del quartiere si ritrovano per fare il bucato, e i cui pettegolezzi sono gli unici strumenti che vengono dati allo spettatore per ricostruire la storia dei personaggi principali. Questi dialoghi sono ulteriore sintomo della maniacale attenzione al dettaglio del regista, che riesce a ricostruire un’intera saga familiare attraverso frasi rubate. A questo si aggiunge una ricerca simbolica di grande efficacia, a partire dagli scacchi che vengono mossi in una partita lentissima e destinata a terminare con il violento intervento della serva, che ribalta la scacchiera vanificando le strategie di chi invece conosce le regole. Ancora una volta non si può non provare la sensazione di essere davanti a un’opera profetica e la carrellata finale che spazia sul paesaggio urbano moderno conferma che il regista non stava parlando (solo) del passato ma della propria contemporaneità e, persino, dell’immediato futuro della sua patria. Creduto perduto per decenni, una copia del film venne ritrovata per puro caso nel 2014, permettendo un lungo intervento di restauro che è riuscito infine a riportarne alla luce lo splendore tecnico, che mischia l’espressionismo europeo ai colori e alle composizioni della tradizione persiana.




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