Vita e “miracoli” del senatore Giulio Andreotti (Toni Servillo), grande protagonista, nel bene e nel male, della Prima Repubblica italiana.

Un incipit folgorante, sulle splendide e stranianti note del Toop Toop del duo francese Cassius, in cui vengono mostrati gli omicidi illustri (da Mino Pecorelli al Generale Dalla Chiesa, da Ambrosoli a Roberto Calvi) in qualche modo legati all'oscura figura di Giulio Andreotti, è soltanto l'inizio di uno dei lungometraggi (italiani e non solo) più significativi del primo decennio del nuovo millennio. Non c'era modo, prima di Sorrentino, di condensare le vicende drammatiche degli anni bui del nostro Paese senza scadere nella retorica o nel didascalismo da miniserie tv: eppure, con questa straordinaria pellicola, il cineasta riesce a regalare un ritratto dinamico e innovativo, inquietante e coinvolgente, visionario e onirico, realista e in perfetto equilibrio tra storia e immaginario. Toni Servillo muta letteralmente nel Divo Giulio, incarnandone difetti e nevrosi, mimeticamente il modo di parlare pacato e al contempo agghiacciante, costruendo il ritratto di un uomo dalle minute fragilità, quasi invisibili sotto la coltre di gelida freddezza e di incrollabile consapevolezza del fatto che sia «necessario il male per avere il bene». Sequenze che si incidono indelebilmente nella memoria storica di un Paese martoriato: dal grottesco e celeberrimo bacio con il boss mafioso Totò Riina ai giorni angosciosi del sequestro Moro, dal monologo alla moglie Livia (Anna Bonaiuti), che parla in realtà al popolo italiano, alla scena, commovente e terrificante a un tempo, dei due coniugi che ascoltano I migliori anni della nostra vita di Renato Zero tenendosi per mano, per evitare i programmi in cui si parla delle accuse di associazione mafiosa per il senatore. Un documento irritante e sublime, dal fascino mostruoso e mefistofelico come quello emanato dalla figura ingobbita del divo Giulio. Senza mai prendere apertamente posizione, Sorrentino riesce elegantemente a suggerire un punto di vista, inequivocabile quanto pericolosamente oggettivo, non trascurando di lasciare intravedere nel moloch andreottiano sparuti sprazzi di umanità: coraggioso, sfacciato, necessario, estetizzante. Con un cast di meravigliosi comprimari (dal Cirino Pomicino di Carlo Buccirosso al Vittorio Sbardella di Massimo Popolizio) e una geniale colonna sonora, che unisce le musiche di Theo Teardo a brani classici e canzoni pop (E la chiamano estate, Da, da, da, ich lieb' Dich nicht, Du liebst mich nicht). Premio della giuria a Cannes, ma soprattutto definito dallo stesso Andreotti «una mascalzonata»: forse il miglior complimento che questo straordinario film potesse ricevere.


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