In Siberia, nella foresta chiamata Taiga, le guardie deputate alle frontiera stanno presidiando la realizzazione di un grande aeroporto, da tenere lontano alle spie giapponesi.

Girato tra il territorio moscovita e la Siberia, ambientazione talmente ingombrante da costituire di fatto un personaggio aggiunto tanto per il film quanto per la storia in sé, Frontiera si lascia pervadere di buon grado dal talento del maestro russo, capace come pochi altri registi suoi coevi di infondere potenza alle proprie scelte formali e di innalzare sempre e comunque verso l'epica le sue immagini. Sospese, in questo caso, tra incombente minaccia naturalistica e ordine morale e politico da mantenere all'interno di ogni singolo fotogramma. Il risultato è, come sempre nel cinema dell'autore di Arsenale (1929), coeso e apprezzabile, pieno di sequenze di assoluto pregio, anche se la natura puntualmente propagandistica dell'operazione è in questo caso più manifesta e letterale che in passato, una componente che contribuisce giocoforza a sottrarre fascino all'insieme. L'avvio è col botto, mentre il proseguo della pellicola si assesta su un tessuto politico e semantico denso e problematico, a corrente alterna ma ugualmente memorabile per la capacità di incidere nelle questioni culturali, in senso lato, del proprio paese.
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