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Un giorno devi andare
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109
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Regista
La trentenne Augusta (Jasmine Trinca) ha perso un bambino e non potrà più avere figli: per questo il marito l'ha lasciata sprofondandola in una cupa depressione. Per tentare di reagire, partirà volontaria per l'Amazzonia alla ricerca di se stessa.
Dopo gli ottimi risultati de Il vento fa il suo giro (2005) e L'uomo che verrà (2012), Giorgio Diritti sembra aver perso lo smalto con questo film deludente, infarcito di luoghi comuni esistenziali alla Into the Wild (2008) e di immagini stereotipate del Brasile e delle figure religiose che lo popolano. Dalla suora solitaria ed eroica al giovane prete idealista, non manca nessuno nel catalogo degli incontri da manuale di Augusta, di per sé personaggio ritrito e irritante nella sua ostentata ombrosità. Il peggio, forse, viene però raggiunto dalle sequenze dedicate alla favela, quasi un microcosmo di calore, musica, balli e affetto dove i problemi, quelli veri, sono tenuti al margine della narrazione, come del resto tutta la sostanza: quello che emerge maggiormente, infatti, è proprio la superficialità di un prodotto girato con il bigino dei film sui viaggi solitari in mano, mai approfondito e a tratti elementare fino a scadere nel ridicolo (i poveri ma felici che vivono meglio dei ricchi insoddisfatti, gli industriali spietati che vogliono violare la natura, le giovani donne alle prese con l'universale maternità). Campata in aria e didascalica la trama parallela che vede una ragazza brasiliana trasferirsi a casa di Augusta in Italia. Uno scivolone fastidioso e spesso anche mortalmente noioso per il regista bolognese.
Dopo gli ottimi risultati de Il vento fa il suo giro (2005) e L'uomo che verrà (2012), Giorgio Diritti sembra aver perso lo smalto con questo film deludente, infarcito di luoghi comuni esistenziali alla Into the Wild (2008) e di immagini stereotipate del Brasile e delle figure religiose che lo popolano. Dalla suora solitaria ed eroica al giovane prete idealista, non manca nessuno nel catalogo degli incontri da manuale di Augusta, di per sé personaggio ritrito e irritante nella sua ostentata ombrosità. Il peggio, forse, viene però raggiunto dalle sequenze dedicate alla favela, quasi un microcosmo di calore, musica, balli e affetto dove i problemi, quelli veri, sono tenuti al margine della narrazione, come del resto tutta la sostanza: quello che emerge maggiormente, infatti, è proprio la superficialità di un prodotto girato con il bigino dei film sui viaggi solitari in mano, mai approfondito e a tratti elementare fino a scadere nel ridicolo (i poveri ma felici che vivono meglio dei ricchi insoddisfatti, gli industriali spietati che vogliono violare la natura, le giovani donne alle prese con l'universale maternità). Campata in aria e didascalica la trama parallela che vede una ragazza brasiliana trasferirsi a casa di Augusta in Italia. Uno scivolone fastidioso e spesso anche mortalmente noioso per il regista bolognese.
