La giovinezza di una belva umana
Yajū no seishun
Durata
92
Formato
Regista
Per scoprire la verità sull'apparente suicidio del detective Takeshita (IchirÅ Kijima), l'ex poliziotto Joji Mizuno (JÅ Shishido) si infiltra nella banda dei Nomoto scatenando di proposito una sanguinosa guerra con la banda rivale.
Pietra miliare dello yakuza-eiga anni Sessanta, il ventottesimo film di Seijun Suzuki — basato su un romanzo di Haruhiko Oyabu — è anche quello che segna una svolta decisiva nella sua carriera: da questo momento in poi, e fino a La farfalla sul mirino (1967) che ne causerà il licenziamento da parte della Nikkatsu, il regista percorrerà un cammino di sperimentazione espressiva sempre più ardito, scuotendo e rinnovando fin dalle fondamenta un genere fino ad allora ritenuto popolare e strettamente vincolato a forme rigide e consolidate. Partendo da un classico canovaccio a base di guerre fra gang, doppi giochi e colpi di scena, Suzuki plasma abilmente un mondo dai contorni surreali in cui, fra personaggi bizzarri (il boss dei Nomoto feticista dei gatti, il fratello omosessuale che sfregia con un rasoio chiunque ne insulti la madre) e scenari onirici (il cortile avvolto da una tempesta di polvere gialla, la casa con i modellini di aeroplani appesi al soffitto), la consequenzialità logica degli eventi passa in secondo piano, continuamente messa a dura prova da uno sperimentalismo vertiginoso — estetico ma anche narrativo, come provano le frequenti ellissi e l'abolizione delle comuni scene di raccordo — che predilige l'incisività della singola sequenza all'armonia complessiva. Ne risulta un film dalla struttura rapsodica, frammentato ma non caotico, splendidamente coreografato e guidato da un protagonista carismatico (JÅ Shishido alla prima delle sue quattro importanti collaborazioni con Suzuki) il cui violento pragmatismo fa da efficace contrappunto alla sgargiante astrattezza della messa in scena. Da antologia la sequenza iniziale nell'ufficio dei Nomoto in cui una semplice trovata scenografica (uno specchio semiriflettente a parete che divide l'ufficio dal night club adiacente) permette a Suzuki di giocare in modo imprevedibile con suoni, luci e colori.
Pietra miliare dello yakuza-eiga anni Sessanta, il ventottesimo film di Seijun Suzuki — basato su un romanzo di Haruhiko Oyabu — è anche quello che segna una svolta decisiva nella sua carriera: da questo momento in poi, e fino a La farfalla sul mirino (1967) che ne causerà il licenziamento da parte della Nikkatsu, il regista percorrerà un cammino di sperimentazione espressiva sempre più ardito, scuotendo e rinnovando fin dalle fondamenta un genere fino ad allora ritenuto popolare e strettamente vincolato a forme rigide e consolidate. Partendo da un classico canovaccio a base di guerre fra gang, doppi giochi e colpi di scena, Suzuki plasma abilmente un mondo dai contorni surreali in cui, fra personaggi bizzarri (il boss dei Nomoto feticista dei gatti, il fratello omosessuale che sfregia con un rasoio chiunque ne insulti la madre) e scenari onirici (il cortile avvolto da una tempesta di polvere gialla, la casa con i modellini di aeroplani appesi al soffitto), la consequenzialità logica degli eventi passa in secondo piano, continuamente messa a dura prova da uno sperimentalismo vertiginoso — estetico ma anche narrativo, come provano le frequenti ellissi e l'abolizione delle comuni scene di raccordo — che predilige l'incisività della singola sequenza all'armonia complessiva. Ne risulta un film dalla struttura rapsodica, frammentato ma non caotico, splendidamente coreografato e guidato da un protagonista carismatico (JÅ Shishido alla prima delle sue quattro importanti collaborazioni con Suzuki) il cui violento pragmatismo fa da efficace contrappunto alla sgargiante astrattezza della messa in scena. Da antologia la sequenza iniziale nell'ufficio dei Nomoto in cui una semplice trovata scenografica (uno specchio semiriflettente a parete che divide l'ufficio dal night club adiacente) permette a Suzuki di giocare in modo imprevedibile con suoni, luci e colori.