Gli ingannati
Al makhdu’un
Durata
107
Formato
Regista
Tre uomini palestinesi, profughi in Iraq, sperano di poter raggiungere il Kuwait per trovare lavoro e riuscire a sostenere economicamente sé stessi e le loro famiglie. Ma la traversata comporta rischi.
Il regista egiziano Tewfik Saleh racconta con crudezza la quotidianità di alcuni palestinesi dopo il primo grande esodo del ‘48: abbandonata la loro terra o direttamente nati in un campo profughi, i protagonisti del film rappresentano tre diverse generazioni che hanno a che fare con lo stesso trauma, come ci avvisa e profetizza la didascalia d’apertura: «Un uomo senza patria non avrà alcuna tomba in terra». Tutti e tre si ritrovano a pensare che la soluzione dei loro problemi possa essere il Kuwait che, negli anni ‘50, aveva dato inizio al suo apparentemente irrefrenabile boom economico. Se il film comincia con una mirabile estetica realista (che comunque non è mai assente durante tutta la pellicola), è anche vero che ben presto la sua struttura si fa a mosaico, e il montaggio ellittico ci porta costantemente avanti e indietro nei ricordi dei personaggi principali: così i drammi personali si accumulano, diventando simboli di una popolazione intera. Superba in questo senso, per l’incisività che non ha bisogno di inutili spiegazioni, la successione di immagini di repertorio dei potenti dell’epoca, che dalle loro scrivanie sconvolsero la geopolitica, alternate con fotografie di profughi. Un film importante che descrive una situazione ancora tristemente attuale. Il regista non nasconde la sua denuncia e, anzi, porta tutto alla luce di un sole cocente e crudele. Tratto dal romanzo Uomini sotto il sole di Ghassan Kanafani, che proprio lo stesso anno di uscita del film verrà fatto assassinare dal Mossad. Primo premio alle Giornate cinematografiche di Cartagine, ex aequo con Sambizanga di Sarah Maldoror.
Il regista egiziano Tewfik Saleh racconta con crudezza la quotidianità di alcuni palestinesi dopo il primo grande esodo del ‘48: abbandonata la loro terra o direttamente nati in un campo profughi, i protagonisti del film rappresentano tre diverse generazioni che hanno a che fare con lo stesso trauma, come ci avvisa e profetizza la didascalia d’apertura: «Un uomo senza patria non avrà alcuna tomba in terra». Tutti e tre si ritrovano a pensare che la soluzione dei loro problemi possa essere il Kuwait che, negli anni ‘50, aveva dato inizio al suo apparentemente irrefrenabile boom economico. Se il film comincia con una mirabile estetica realista (che comunque non è mai assente durante tutta la pellicola), è anche vero che ben presto la sua struttura si fa a mosaico, e il montaggio ellittico ci porta costantemente avanti e indietro nei ricordi dei personaggi principali: così i drammi personali si accumulano, diventando simboli di una popolazione intera. Superba in questo senso, per l’incisività che non ha bisogno di inutili spiegazioni, la successione di immagini di repertorio dei potenti dell’epoca, che dalle loro scrivanie sconvolsero la geopolitica, alternate con fotografie di profughi. Un film importante che descrive una situazione ancora tristemente attuale. Il regista non nasconde la sua denuncia e, anzi, porta tutto alla luce di un sole cocente e crudele. Tratto dal romanzo Uomini sotto il sole di Ghassan Kanafani, che proprio lo stesso anno di uscita del film verrà fatto assassinare dal Mossad. Primo premio alle Giornate cinematografiche di Cartagine, ex aequo con Sambizanga di Sarah Maldoror.