Godland – Nella terra di Dio

Vanskabte land

Durata

143

Formato

Regista

Alla fine del XIX secolo, un giovane sacerdote danese (Elliott Crosset Hove) si reca in una parte remota dell'Islanda per costruire una chiesa e fotografare la sua gente. Ma più si addentra nel paesaggio selvaggio, più si allontana dal suo scopo, dalla sua missione e dalla sua moralità.

Sette fotografie scattate durante un viaggio in Islanda da un prete danese nel corso del XIX secolo: è questa l’ispirazione alla base di Godland – Nella terra di Dio, terzo lungometraggio di Hlynur Pálmason dopo Winter Brothers e A White, White Day – Segreti nella nebbia. Una genesi dell’opera che, arrivando da vere fotografie, porta subito questo prodotto a diventare anche un film sul “cinema” e sul senso più profondo dell’immagine, fissa o in movimento che sia: non è forse un caso che in uno dei primi “scatti”, il prete dica alle persone pronte al loro ritratto di stare immobili, come fossero morti, richiamando una serie di riflessioni sul legame tra la morte stessa e l’immagine fotografica che può far venire in mente persino le riflessioni di Roland Barthes ne La camera chiara. Oltre al lato cinematografico, Godland è un film sul dualismo e sullo scontro tra due culture – quella danese e quella islandese – divise fin dalle prime immagini in cui il titolo del film viene scritto nelle due lingue differenti: una distanza incolmabile, ben rappresentata dai due personaggi principali della pellicola, magnificamente interpretati da Elliott Crosset Hove e Ingvar Sigurdsson. Ci sono echi bergmaniani in questo film dalla messinscena austera e sperimentale allo stesso tempo, capace di regalare grandi suggestioni ma anche di denotare una certa supponenza in alcuni passaggi eccessivamente prolissi e costruiti a tavolino. Pálmason alterna sequenze dal fascino enorme a momenti troppo ridondanti e non sempre coinvolgenti e ispirati al punto giusto, seppur il disegno d’insieme rimanga coerente dall’inizio alla fine. Il risultato è un film che dice molto dell’Islanda e della sua cultura, firmato da un regista nato sull’isola ma cresciuto professionalmente in Danimarca, quasi come se la diatriba alla base della sua narrazione sia anche qualcosa di profondamente intimo e sentito all’interno della sua personalità.   
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