Maria, Pinuccia, Lia, Katia, Antonella: l'infanzia, l'età adulta e la vecchiaia di cinque sorelle nate e cresciute in un appartamento all'ultimo piano di una palazzina nella periferia di Palermo. Una casa che porta i segni del tempo che passa come chi ci è cresciuto e chi ancora ci abita. La storia di cinque donne, di una famiglia, di chi va via, di chi resta e di chi resiste.

Sette anni dopo l’esordio alla regia con Via Castellana Bandiera, tratto da un suo romanzo e premiato alla Mostra del Cinema di Venezia con la Coppa Volpi alla sua attrice Elena Cotta, la regista Emma Dante torna dietro la macchina da presa per adattare una sua pièce, vincitrice del premio Ubu, prestigioso riconoscimento teatrale. Al centro della storia, come sempre nelle sue produzioni, ci sono delle figure ancorate a una forte sofferenza carnale e sociale, che trova nel dialetto palermitano il suo principale e più immediato sfogo linguistico e in degli intrecci a tinte forti una forte dose di prossimità, piuttosto sfrontata e senza filtri, tra la messa in scena della Dante e il coinvolgimento epidermico degli spettatori. Lo stesso schema si ripete anche in questo caso, dove però le soluzioni narrative e il coraggio sono meno spinti e portati all’eccesso rispetto alle invenzioni destinate al palcoscenico. A dispetto di ciò Le sorelle Macaluso si gioca in maniera serrata le sue carte, puntando su un’anima mélo da scorbutico e sentito romanzo popolare al femminile, nel quale i legami di sangue sono la prima e l’ultima di tutte le dannazioni possibili e il confine tra i vivi e i morti è dolcemente e tragicamente labile. Se sul palcoscenico avevamo sei sorelle vive e una morta, al cinema la Dante gioca naturalmente più col montaggio, muovendosi attraverso le epoche e le età anagrafiche delle sue donne, intrecciando senilità e ricordi d’infanzia, dolori ancestrali e gesti di tenerezza che sopravvivono anche all’abbrutimento della maturità. Ne viene fuori un film in parte potente ma imperfetto, che colpisce al cuore quando lavora al ribasso (i campi vuoti della casa d’infanzia, immutabile eppure sempre diversa sotto la luce di una nostalgia a doppio taglio) e suona invece eccessivamente stonato quando ricorre a metafore smaccate (i “colombini”, portatori di sostentamento, disperazione e infine, forse, resurrezione). Anche la regia, seppur ispirata, sbanda spesso sotto i colpi di un’emotività non arginata, lasciata andare a briglia sciolta nelle derive più vergognose, impudiche e inaccettabili dei vincoli familiari e ricomposta solo in parte, sebbene la sequenza della lite tra sorelle e quella dei dolci divorati da una di loro lascino il segno smussando le emozioni forti con sapienza. Invadente anche la colonna sonora, che spazia da Franco Battiato a Gianna Nannini, e disomogenea la recitazione delle attrici, specie sul fronte infantile (al fianco di Donatella Finocchiaro tantissime sono le esordienti). Scritto da Emma Dante insieme a Giorgio Vasta ed Elena Stancanelli, all’esordio come sceneggiatrice. Presentato in Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2020.
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