Mudbound

Nel Mississippi alla fine della Seconda guerra mondiale, in un’America razzista immediatamente successiva al conflitto, si intrecciano dei legami all’interno di una stessa fattoria che cambieranno le vite di molti e daranno ai protagonisti il coraggio di affrontare, forse, delle sfide future.



La regista afroamericana Dee Rees dirige un dramma che, in maniera leggermente patinata e quasi sempre innocua, prova a tirare le somme su tanti aspetti della cultura americana inseriti nel cuore del secolo scorso: ku klux klan, sessismo, ruralità, risvolti controversi legati alla società e alla coscienza civile di una nazione divorata dai contrasti, succube di una Storia forse troppo giovane e recente per poter vantare la giusta maturità. Il film, però, segue la stessa china e abbonda di luoghi comuni e retorica fuori controllo, mostrando un pathos talvolta eccessivo e sfasato, poco lucido e ancor meno efficace. La struttura narrativa, che procede per accumulo di temi, spunti e situazioni, mostra ben presto la corda e col passare dei minuti si fa sempre più gravosa e prolissa, fino a sfiorare la durata fuori misura, per un progetto del genere, di due ore e quaranta. Un film che, con la pretesa di raccontare tutto e il contrario di tutto, di farsi portavoce di ogni anfratto più o meno violento e doloroso dell’identità americana, finisce solo col non raccontare nulla e col risultare un mero polpettone indigesto e fuori luogo, che solo di rado azzecca dei momenti sufficienti. Produce Netflix, che dimostra per l’ennesima volta di non possedere il passo giusto, a livello produttivo e creativo, per incidere lontano dalla serialità con prodotti cinematografici che abbiano un’anima e uno spessore memorabili e riconoscibili. Presentato con strepitoso successo al Sundance Film Festival 2017 e passato alla Festa del Cinema di Roma.