Peace to Us in Our Dreams
Peace to Us in Our Dreams
Durata
107
Formato
Regista
Siamo in Estate, nel brullo e contrastato paesaggio lituano. Un uomo (Sharunas Bartas), la sua nuova compagna (Lora Kmieliauskaite) e la figlia (Ina Marija Bartaite), la cui madre è morta da non molto, giungono in una casa di campagna per un week-end. Il rapporto tra l'uomo e sua moglie è già al limite, mentre la figlia stringe amicizia con un ragazzo che si aggira indisturbato nei boschi con un fucile.
Presentato alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes 2015, è un film involuto e regressivo, cocciutamente e perniciosamente impegnato in una compiaciuta ostentazione d'autorialità e di autobiografismo (Bartas dirige se stesso, fa recitare la propria figlia nei panni della figlia del suo personaggio e fa far capolino alla compagna recentemente scomparsa in una ripresa digitale all'inizio del film: davvero troppo). Se la prima parte muove da premesse interessanti, orchestrando una sinfonia paesaggistica che ribalta qualsiasi presupposto della grammatica cinematografica classica (i primi piani durano quanto i campi lunghi, e hanno la stessa valenza), il secondo blocco del lungometraggio appare improntato a un'imbarazzante e vacua paralisi, che tentenna in maniera surreale e si smarrisce tra dialoghi pretenziosi e involuti, insistiti e irritanti, che spremono all'inverosimile tematiche già annunciate nella prima metà. Il finale, alla luce di queste premesse e sebbene ricorra a interessanti suggestioni di montaggio, non può dunque che rifugiarsi in uno snodo prevedibile come un colpo di pistola per far quadrare – a suo modo – i conti e mettere a posto tutto, regalando, si fa per dire, un forzatissimo e tardivo sussulto alle proprie soporifere e non pervenute elucubrazioni.
Presentato alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes 2015, è un film involuto e regressivo, cocciutamente e perniciosamente impegnato in una compiaciuta ostentazione d'autorialità e di autobiografismo (Bartas dirige se stesso, fa recitare la propria figlia nei panni della figlia del suo personaggio e fa far capolino alla compagna recentemente scomparsa in una ripresa digitale all'inizio del film: davvero troppo). Se la prima parte muove da premesse interessanti, orchestrando una sinfonia paesaggistica che ribalta qualsiasi presupposto della grammatica cinematografica classica (i primi piani durano quanto i campi lunghi, e hanno la stessa valenza), il secondo blocco del lungometraggio appare improntato a un'imbarazzante e vacua paralisi, che tentenna in maniera surreale e si smarrisce tra dialoghi pretenziosi e involuti, insistiti e irritanti, che spremono all'inverosimile tematiche già annunciate nella prima metà. Il finale, alla luce di queste premesse e sebbene ricorra a interessanti suggestioni di montaggio, non può dunque che rifugiarsi in uno snodo prevedibile come un colpo di pistola per far quadrare – a suo modo – i conti e mettere a posto tutto, regalando, si fa per dire, un forzatissimo e tardivo sussulto alle proprie soporifere e non pervenute elucubrazioni.