Siamo uomini o caporali?
Durata
92
Formato
Regista
Dopo aver minacciato l'amministratore del teatro di posa (Paolo Stoppa) dove lavora come comparsa, Totò Esposito (Totò) viene rinchiuso in manicomio. Qui spiegherà a uno psichiatra la sua teoria sull'umanità, divisa tra uomini (che subiscono sempre) e caporali (che vivono opprimendo i primi).
Al secondo film insieme (dopo Totò all'inferno, dello stesso anno), Totò e Camillo Mastrocinque traducono su pellicola il fulcro “filosofico” del pensiero dell'attore, espresso nell'autobiografia omonima (e divenuto uno dei suoi tormentoni). È un Totò, questo, che pur non rinunciando alla sua carica effervescente, racconta e mostra, con un'espressività carica di mille sfumature, il volto vessato e perdente dell'uomo qualunque. Con un'idea surreale il casting affida a Paolo Stoppa tutti i ruoli dei diversi “caporali” incontrati nella vicenda, che parte dal secondo conflitto mondiale per terminare nel dopoguerra. Molti i tagli e gli interventi della censura (inizialmente il caporale doveva essere lo stesso personaggio e mostrare così il cinico trasformismo della classe dirigente italiana), ma il film mantiene la sua carica corrosiva sino in fondo grazie a un finale circolare che sigilla la storia con amara rassegnazione dopo aver raccontato quindici anni di storia italiana, arrivando a mostrarne il volto più cinico (è uno dei primi film in cui si vedono i campi di concentramento). Superficialmente negativo il giudizio della critica contemporanea, è invece uno dei lungometraggi più sentiti e appassionanti della carriera di Totò, per il materiale autobiografico, per l'audacia del soggetto e l'ambizione a un'interpretazione più sfaccettata. Presente nel film, interpretata dall'attore stesso, una delle sue canzoni più struggenti, Còre analfabbeta.
Al secondo film insieme (dopo Totò all'inferno, dello stesso anno), Totò e Camillo Mastrocinque traducono su pellicola il fulcro “filosofico” del pensiero dell'attore, espresso nell'autobiografia omonima (e divenuto uno dei suoi tormentoni). È un Totò, questo, che pur non rinunciando alla sua carica effervescente, racconta e mostra, con un'espressività carica di mille sfumature, il volto vessato e perdente dell'uomo qualunque. Con un'idea surreale il casting affida a Paolo Stoppa tutti i ruoli dei diversi “caporali” incontrati nella vicenda, che parte dal secondo conflitto mondiale per terminare nel dopoguerra. Molti i tagli e gli interventi della censura (inizialmente il caporale doveva essere lo stesso personaggio e mostrare così il cinico trasformismo della classe dirigente italiana), ma il film mantiene la sua carica corrosiva sino in fondo grazie a un finale circolare che sigilla la storia con amara rassegnazione dopo aver raccontato quindici anni di storia italiana, arrivando a mostrarne il volto più cinico (è uno dei primi film in cui si vedono i campi di concentramento). Superficialmente negativo il giudizio della critica contemporanea, è invece uno dei lungometraggi più sentiti e appassionanti della carriera di Totò, per il materiale autobiografico, per l'audacia del soggetto e l'ambizione a un'interpretazione più sfaccettata. Presente nel film, interpretata dall'attore stesso, una delle sue canzoni più struggenti, Còre analfabbeta.