Prisioneros de la tierra

1915, regione argentina di Misiones. Il mensù Esteban (Ángel Magaña), lavoratore di una piantagione di erba mate, si innamora di Andrea (Elisa Galvé), figlia del medico locale. I loro sentimenti causeranno l’invidia del capataz Köhner (Francisco Petrone). La tragedia è in agguato.

Melodramma che al più classico discorso amoroso aggiunge temi fondamentali per l’identità argentina e latino-americana in generale. Innanzitutto, il mito fondante della conquista della selva, nel disperato e vano tentativo di prendere il controllo di una terra che “è gelosa dei suoi prigionieri”. Ma c’è anche la dura lotta tra la civiltà occidentale (medico e capataz sono di origine tedesca) e quella nativa, dove la scienza della prima soccombe alla tradizione della seconda, fatta di talismani, presagi e sogni, forieri di verità ben più della cultura europea importata. Non è infatti un caso che il medico alcolizzato abbia un forte accento che rende incerti e balbettanti i suoi discorsi, mentre i mensù passano con disinvoltura dallo spagnolo al guaranì, sottolineando un’appartenenza al territorio che però è anche fatale impossibilità di mutamento. Per nulla banale la caratterizzazione della protagonista, personaggio al limite tra i due mondi, che prende le redini della famiglia e della sua vita sentimentale con grande modernità, pagandone lo scotto. Ispirato ad alcuni racconti di Horacio Quiroga, scrittore che più di tutti ha fatto della selva il suo habitat, e sceneggiato dal figlio Darío.