Silent souls
Ovsyanki
Durata
75
Formato
Regista
Alla morte della moglie Tanya (Yuliya Aug), Miron (Yuriy Tsurilo) chiede al suo migliore amico, Aist (Igor Sergeev), di aiutarlo a dirle addio secondo i rituali della cultura Merya, un'antica tribĂą ugro-finnica del lago Nero, pittoresca regione della Russia centro-occidentale. I due uomini partono per un viaggio che li porterà, in compagnia di due piccoli uccelli in gabbia, per migliaia di chilometri attraverso terre sconfinate.
Al suo quarto lungometraggio, ma alla prima opera che lo ha rivelato al pubblico internazionale, il regista illustra un viaggio iniziatico verso la morte, intesa come l'inizio di una nuova esistenza in simbiosi con la natura, un ritorno a una dimensione ancestrale e primitiva. Ma il film è anche una melanconica riflessione sulla dissoluzione di un sistema di valori e di affetti che hanno ormai definitivamente lasciato il posto allo squallore e al cinismo, mentre il punto di vista del cineasta è quello degli sconfitti, personaggi marginali consapevoli della loro marginalità. I protagonisti incarnano una cultura e delle tradizioni ormai scomparse dalla mappa del tempo, schiacciate dal conformismo e svilite dalla vita moderna insensibile e gretta. Il tutto viene raccontato con una messa in scena essenziale e suggestiva, intimistica ed ermetica, forse perfino in maniera eccessiva, tanto da inficiare in parte la riuscita del film, così come il lirismo che ammanta la narrazione appare un po' troppo costruito. Visivamente ammaliante ma a tratti troppo cervellotica e poco spontanea, un'opera comunque complessa e affascinante che sa toccare corde emotive universali e rimane impressa nella mente e negli occhi, malgrado le sue imperfezioni e i suoi squilibri. Grandi applausi alla Mostra di Venezia 2010, ma il film ha conquistato solo un premio minore come l'Osella per la miglior fotografia.
Al suo quarto lungometraggio, ma alla prima opera che lo ha rivelato al pubblico internazionale, il regista illustra un viaggio iniziatico verso la morte, intesa come l'inizio di una nuova esistenza in simbiosi con la natura, un ritorno a una dimensione ancestrale e primitiva. Ma il film è anche una melanconica riflessione sulla dissoluzione di un sistema di valori e di affetti che hanno ormai definitivamente lasciato il posto allo squallore e al cinismo, mentre il punto di vista del cineasta è quello degli sconfitti, personaggi marginali consapevoli della loro marginalità. I protagonisti incarnano una cultura e delle tradizioni ormai scomparse dalla mappa del tempo, schiacciate dal conformismo e svilite dalla vita moderna insensibile e gretta. Il tutto viene raccontato con una messa in scena essenziale e suggestiva, intimistica ed ermetica, forse perfino in maniera eccessiva, tanto da inficiare in parte la riuscita del film, così come il lirismo che ammanta la narrazione appare un po' troppo costruito. Visivamente ammaliante ma a tratti troppo cervellotica e poco spontanea, un'opera comunque complessa e affascinante che sa toccare corde emotive universali e rimane impressa nella mente e negli occhi, malgrado le sue imperfezioni e i suoi squilibri. Grandi applausi alla Mostra di Venezia 2010, ma il film ha conquistato solo un premio minore come l'Osella per la miglior fotografia.