Son of the White Mare
Fehérlófia
Durata
86
Formato
Regista
Tre fratelli, figli di una dea con le sembianze di cavallo, partono per salvare tre principesse minacciate da tre draghi malvagi: se riusciranno a salvarle potrenno riappropriarsi anche del regno dei loro antenati.
Prendendo spunto da una fiaba tradizionale magiara, Marcell Jankovics dirige un film d’animazione che è soprattutto anarchia visiva. La narrazione è infatti subordinata alle continue invenzioni del regista, che gioca con colori e forme in continuo mutamento. La scelta di una fiaba come base si rivela molto azzeccata nell’accompagnare queste evoluzioni figurative, che fanno pensare a un sogno (o a un incubo) e ben si amalgamano con la magia del racconto, dove non è la logica ad avere le redini della narrazione. Nel tentativo di fare una versione personalissima della storia, per Jancovics c’è anche spazio per simbologie più moderne, come gli ultimi due draghi, rappresentanti rispettivamente un carro armato (e subito saltano in mente le immagini dell’invasione sovietica in Ungheria) e una città industrializzata. Tema che ricorre anche nei titoli di coda, dove lo smog cittadino avvolge il protagonista come presagio di una possibile sconfitta dell’eroismo folkloristico in un mondo che dimentica le proprie tradizioni. Al di là di tutte le analisi a cui il film si presta, però, è utile soprattutto accettare di perdersi nelle sue immagini che sublimano la potenza del racconto orale.
Prendendo spunto da una fiaba tradizionale magiara, Marcell Jankovics dirige un film d’animazione che è soprattutto anarchia visiva. La narrazione è infatti subordinata alle continue invenzioni del regista, che gioca con colori e forme in continuo mutamento. La scelta di una fiaba come base si rivela molto azzeccata nell’accompagnare queste evoluzioni figurative, che fanno pensare a un sogno (o a un incubo) e ben si amalgamano con la magia del racconto, dove non è la logica ad avere le redini della narrazione. Nel tentativo di fare una versione personalissima della storia, per Jancovics c’è anche spazio per simbologie più moderne, come gli ultimi due draghi, rappresentanti rispettivamente un carro armato (e subito saltano in mente le immagini dell’invasione sovietica in Ungheria) e una città industrializzata. Tema che ricorre anche nei titoli di coda, dove lo smog cittadino avvolge il protagonista come presagio di una possibile sconfitta dell’eroismo folkloristico in un mondo che dimentica le proprie tradizioni. Al di là di tutte le analisi a cui il film si presta, però, è utile soprattutto accettare di perdersi nelle sue immagini che sublimano la potenza del racconto orale.