The Running Man
The Running Man
Durata
133
Formato
Regista
In un futuro distopico, gli Stati Uniti sono un regime totalitario segnato da corruzione, crisi economica e criminalità dilagante. Disoccupato e con la figlia malata, Ben Richards (Glen Powell) decide di partecipare a The Running Man, un letale show televisivo in cui i concorrenti devono sopravvivere 30 giorni in fuga da spietati cacciatori per vincere un grande premio in denaro.
È un cinema in fuga quello di Edgar Wright: lo è sempre stato. In fuga dalle etichette, dalle più canoniche definizioni di genere. Alla ricerca, costante, di nuovi stratagemmi di composizione dell'immagine, di giochi di sovrapposizione atti a costruire una nuova identità a partire dal continuo rimescolamento di vecchie formule e linguaggi. The Running Man, allora, sembrerebbe il nuovo ideale tassello del percorso artistico del regista: un percorso che, lanciato dalle vette satiriche della trilogia del cornetto e consolidato dalla transmedialità di Scott Pilgrim vs the World, ha di recente abbracciato la nuova generazione hollywoodiana grazie a Baby Driver e Last Night in Soho. E che qui, alle prese con il materiale distopico tratto dall'omonimo romanzo di Stephen King, trova in Glen Powell, figlioccio del running man per antonomasia degli ultimi trent'anni (Tom Cruise), la perfetta incarnazione delle linee guida della poetica del regista, a partire da una certa tendenza al trasformismo e al riattraversamento dei generi. L'operazione, però, funziona solo a metà, perché se è vero che, a fronte di un immaginario ormai pluricodificato, Edgar Wright riesce sempre a far emergere la propria firma (tra un utilizzo "dopato" delle immagini e l'immancabile ironia che smorza, senza spegnere, gli sprazzi di dramma e critica politico-sociale), è altrettanto vero che il cineasta britannico ci ha quasi sempre abituati a una rielaborazione teorica che andasse oltre il carattere puramente tematico delle immagini. Rielaborazione che qui, inspiegabilmente, si perde. Lasciandoci spettatori di un film che, sebbene abbia tutte le carte in regola per intavolare una riflessione sull'impossibilità di fuggire dalle regole di un genere ormai saturato da continue rivisitazioni, si congeda con una mezz'ora conclusiva che sembra piuttosto accettare "passivamente" tale assunto, disperdere la ferocia e accontentarsi del solo, per quanto efficace, intrattenimento.