Tiempo de revancha

Tiempo de revancha

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112

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Pedro Bengoa (Federico Luppi) è un ex sindacalista, ora operaio per un’industria mineraria che non ha a cuore la sicurezza degli operai. Insieme a un collega architetta una messinscena per denunciarne la corruzione: il piano non va come previsto, ma Pedro non si arrende e decide di andare fino in fondo con la sua farsa.

Con Tiempo de revancha, Aristarain firma il suo primo grande successo di critica e pubblico, nonché una delle denunce più potenti e sottili del cinema argentino dell’era della dittatura militare. Uscito nel 1981, quando il regime era ancora in carica, il film si muove abilmente sul filo della metafora per evitare la censura, ma il messaggio arriva comunque, diretto e durissimo, grazie a una scrittura affilata e a una messa in scena rigorosa. Si parte da un presupposto da thriller civile, che poi prende una piega tragica che fa cambiare marcia al film: da storia di truffa e vendetta personale si trasforma in un dramma morale in cui il protagonista (un Federico Luppi straordinario nella sua essenzialità fisica e muta, qui alla prima collaborazione con il regista) sceglie il silenzio come unica forma di resistenza. Diventa il simbolo di un’intera nazione sotto controllo, dove ogni gesto è osservato e ogni deviazione punita. Aristarain utilizza la grammatica del noir e del cinema di denuncia con mano sicura, costruendo sequenze tese e claustrofobiche che restituiscono tutta la paranoia di quegli anni. Ma ciò che distingue davvero il film è la sua forza simbolica: Tiempo de revancha è una parabola sulla dignità, sul coraggio e sul prezzo dell’integrità in un sistema dove la verità è pericolosa. Girato con un’attenzione formale notevole –uso sapiente della luce, scenografie industriali spoglie ma evocative– il film riesce a essere universale pur rimanendo radicato nella realtà argentina del tempo. È anche un’opera che non ha perso nulla della sua attualità: la critica al potere economico, alla connivenza tra impresa e Stato, alla violenza istituzionale è ancora oggi di una chiarezza impressionante. Una pellicola cupa, serrata, coraggiosa, che ha segnato una svolta nel cinema argentino e ha consolidato Aristarain come una voce fuori dal coro. Di impressionante cinismo il finale. Nota di curiosità: l’industria fittizia è battezzata Tulsaco, esattamente come quella che, una decina di anni dopo, minaccerà il villaggio in Un posto nel mondo.
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