Un uomo (Buster Keaton), che vediamo solo di spalle, sembra fuggire da un invisibile “occhio” che lo segue ossessivamente. Due passanti e un'anziana signora rimangono inorriditi di fronte a quello stesso occhio. Nel suo appartamento, l'uomo allontana lo sguardo degli animali presenti (un cane, un gatto, un uccello e un pesce), ma non può sfuggire alla presenza che lo perseguita.

Geniale corto sperimentale che costituisce l'eccezionale incontro tra il grande drammaturgo Samuel Beckett e il cinema. L'autore di Aspettando Godot e Finale di partita scrive la sceneggiatura e il regista teatrale Alan Schneider dirige: l'azione si compone di poche scene in un essenziale bianco e nero, totalmente senza dialoghi né colonna sonora (il film è stato però musicato da diversi artisti nel corso degli anni). Grande icona del cinema muto qui in una delle sue ultime interpretazioni, Buster Keaton regala una performance immensa (con una sola, tragicomica, gag) nei panni di O (the Object), che tenta disperatamente di sfuggire a E (the Eye, l'occhio della macchina da presa e, quindi, dello spettatore), ovvero a se stesso. Sulla celluloide si trasferisce il teatro dell'assurdo e il principio filosofico dell'esse est percipi (“essere è essere percepiti”) di George Berkeley, in un'oscura e ostica opera di impressionante modernità. Beckett si accomiata dalla settima arte dopo quest'unica esperienza, insoddisfatto delle potenzialità del mezzo cinematografico: noi non possiamo che cogliere il suo estemporaneo contributo come un dono prezioso.
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