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Fatalismo, solitudine e disillusione nel noir americano anni '40
Un mondo popolato da antieroi che si muovono in sinistri ambienti metropolitani, segnati da un passato oscuro o da rimuovere che grava in maniera ineluttabile sul loro presente. Un senso di pessimismo che cristallizza in maniera univoca il destino dei personaggi, separando l'illusoria possibilità di salvezza dalla certezza di un amaro finale. Una visione archetipica dei rapporti umani che azzera l'introspezione psicologica e codifica autentici ruoli-simbolo, mappando un universo fortemente deterministico. Sono questi alcuni tratti fondamentali che danno vita alle atmosfere in cui agiscono femme fatale, detective, poliziotti, gangster e serial killer del noir classico americano, percorso filmico che, convenzionalmente, prende il via con Il mistero del falco (1941) di John Huston e giunge al canto del cigno con L'infernale Quinlan (1958) di Orson Welles. Una corrente cinematografica di importanza capitale, anche per l'evoluzione del cinema nei decenni successivi, che vede il suo massimo splendore negli anni '40, imponendosi come il controcanto cupo dell'american way of life di rinascita che aveva caratterizzato gli anni '30.

«Non so cosa significhi il termine noir. A quel tempo facevamo solo film. Cary Grant e le altre star della RKO prendevano per loro tutte le luci e a noi non restava che illuminare i set con i mozziconi di sigaretta». (Robert Mitchum)


Le pellicole di questo periodo hanno contribuito a creare un particolare visual style, sebbene nell'iniziale inconsapevolezza degli autori. Un iconico immaginario reso immortale dai forti contrasti tra il bianco e il nero della fotografia, che ha segnato il nero hard-boiled, sottogenere con al centro i mitici private eye tratti dai romanzi di Raymond Chandler, Mickey Spillane e Dashiell Hammett, il nero sociale di taglio documentaristico influenzato dal Neorealismo italiano e il nero esistenziale, che ha raggiunto però il suo apice espressivo in Francia negli anni '50 e '60. I registi e i direttori della fotografia, per esprimere visivamante i conflitti dell'uomo, la violenza e il senso di minaccia, elaborano un proprio linguaggio, affidansosi a soluzioni innovative che riguardano le scelte di illuminazione. Avvolti nel buio, immersi nella nebbia, bagnati dalla pioggia, i personaggi del noir classico si muovono perlopiù in luoghi-specchio dei loro stati d'animo. Gli interni sono inospitali, la città, spesso ripresa di notte, si popola di ombre minacciose e diventa luogo ostile e di costante minaccia. All'eroe della prateria del western, si è sostituito l'antieroe urbanizzato.

Ecco, allora, un viaggio alla (ri)scoperta dei titoli fondamentali che hanno segnato la storia del noir americano degli anni '40:

Il mistero del falco (John Huston, 1941)



Decisamente una delle opere prime più significative della storia del cinema. Già attivo sceneggiatore per la Warner Bros., John Huston scrive e dirige la versione cinematografica di uno dei capisaldi della letteratura hard-boiled americana, Il falcone maltese (1929) di Dashiell Hammett. In una trama intricatissima che si snoda lungo spazi claustrofobici illuminati da chiaroscuri opprimenti (fotografia di Arthur Edeson), si muovono personaggi che divengono immediatamente icone di un genere (il detective, la dark lady, il fat man modellato sulla fisicità di Sydney Greenstreet). Su tutte, si staglia Humphrey Bogart: sguardo malinconico, impermeabile sgualcito e sigaretta sempre alla bocca, entra indelebilmente nell'immaginario collettivo nei panni dell'antieroe cinico e disilluso, in lotta contro i mali di una società corrotta dall'avidità. E, nella celebre battuta shakespeariana, ci ricorda che il cinema, proprio come quel geniale MacGuffin che è la statuetta a forma di falco, è fatto «della materia di cui sono fatti i sogni».

La fiamma del peccato (Billy Wilder, 1944)


Tratto da La morte paga doppio (1943), romanzo breve di James Cain a sua volta ispirato a un vero fatto di cronaca del 1928, il quarto lungometraggio di Billy Wilder, scritto a quattro mani con Raymond Chandler, è uno dei più grandi noir mai apparsi su pellicola. Capolavoro assoluto al di là di ogni connotazione di genere, il film raccoglie tutti i topoi del cinema nero e li porta allo stato dell'arte, definendo un modello paradigmatico in cui ogni singolo elemento è perfettamente inserito nel quadro generale dell'opera. Esemplare nella struttura narrativa, esaltata dalla confessione in prima persona del protagonista, il quale accompagna con la sua voce narrante tutta la vicenda («L'ho ucciso io. L'ho ucciso per denaro e per una donna. E non ho preso il denaro, e non ho preso la donna. Bell'affare»), il film è un lungo flashback in cui i soldi e il sesso assurgono a protagonisti assoluti della storia e, per estensione, a vero motore di ogni azione umana. Fred MacMurray e Barbara Stanwyck, torbidi amanti destinati all'autodistruzione, sono a dir poco memorabili, così come la fotografia di John Seitz e la colonna sonora di Miklós Rózsa.

L'ombra del passato (Edward Dmytryk, 1944)


Sublime trasposizione di Addio, mia amata (1940) di Raymond Chandler, il film è un autentico punto di riferimento del genere. In questo puzzle enigmatico e intricatissimo, più che l'andamento delle indagini contano il disegno dei personaggi, l'atmosfera fosca e la costruzione di un microcosmo in cui si muovono biechi rappresentanti della miseria umana. Conta moltissimo, ovviamente, la fotografia tutta tagli di luce e ombre di Harry J. Wild, che Dmytryk sfrutta alla perfezione, specialmente nella sequenza onirica (che coraggio, per l'epoca!), culmine visivo di un film di notevolissima potenza espressiva. Dick Powell non ha certo né il carisma né il physique du rôle di Bogart, che interprerà magnificamente lo stesso personaggio due anni più tardi ne Il grande sonno (1946) di Howard Hawks, altra pietra angolare del noir chandleriano, ma è difficile dimenticare il suo Marlowe, smarrito e disorientato, vittima della mostruosità e del caos del mondo che lo circonda.

Vertigine (Otto Preminger, 1944)


«Non dimenticherò mai il giorno in cui Laura morì…». È la battuta, pronunciata su schermo nero, mentre la musica da extradiegetica si fa diegetica e una sinuosa carrellata immerge lo spettatore nel film, con cui si apre uno dei noir più magnetici, ipnotici e ambigui degli anni '40, diventato un autentico titolo di culto capace di influenzare decine di autori contemporanei, Lynch in primis, grazie alla sua struttura narrativa, quasi sperimentale per l'epoca, capace di giocare sul confine tra sogno e realtà. Il film per eccellenza sull'ossessione amorosa (ben prima del capolavoro hitchcockiano La donna che visse due volte), sull'attrazione per la bellezza (fisica, ma soprattutto ideale) e sulla morbosità del rapporto (verso una donna defunta). Memorabile Gene Tierney, luminosa ed eterea come non mai, ma anche Dana Andrews, nei panni del detective immerso in un clima beffardo e perverso, non le è da meno.

Detour (Edgar G. Ulmer, 1945)



B-movie tra i più celebri della storia del cinema, Detour (che in italiano significa "deviazione") è un potente noir che si gioca tutte le sue carte migliori nella struttura a flashback e nel monologo interiore del protagonista. Figura tragica vittima di continui scherzi del destino che lo fanno precipitare in un incubo a occhi aperti senza via d'uscita, il pianista da quattro soldi al centro della storia è uno dei "perdenti" più riusciti di sempre, attraversato da una angoscia esistenziale che non si dimentica. Budget irrisorio, ma tante idee e tanto amore per il cinema. Recuperato negli anni '70 dai registi della New Hollywood, è uno dei grandi amori di Martin Scorsese.

I gangsters (Robert Siodmak, 1946)



Chi era “lo svedese” e perché è stato ucciso? Perché quell'uomo, un ex pugile professionista diventato un criminale e infine un benzinaio, non ha provato a difendersi dall'agguato dei suoi assassini? Sulla base di queste domande, prende forma uno dei noir simbolo del decennio, citato e omaggiato ancora oggi, in cui il dimenticato maestro Robert Siodmak, ispirandosi a un racconto di Ernest Hemingway, realizza un perfetto congegno di ritmo e suspense, impeccabilmente costruito con complessi flashback a incastro. Una potente riflessione sulla colpa, sull'espiazione e sull'impossibilità di sfuggire a un fato incontrovertibile. Indimenticabili Burt Lancaster, qui alla sua prima apparizione sul grande schermo, e Ava Gardner, dark lady definitiva.

Il grande sonno (Howard Hawks, 1946)



Tratto dall'omonimo romanzo (1939) di Raymond Chandler, Il grande sonno è uno dei noir classici più iconici degli anni '40, l'opera che codificò tutti i cliché del genere, giocandoci apertamente (a partire dalle due ombre che si accendono la sigaretta nei titoli di testa). Rispetto al romanzo, Howard Hawks ridimensiona la misoginia di Marlowe e aggiunge qua e là mirati inserti sarcastici, per poi appoggiarsi alla strepitosa coppia protagonista Bogart/Bacall (che si erano conosciuti sul set di Acque del sud del 1944, sempre di Hawks), creando un connubio di complicità, tensione erotica e duello dei sessi destinato a entrare nell'immaginario collettivo. La quintessenza del noir, magnificamente scritto, diretto e interpretato. La leggenda vuole che la trama complessa e a tratti incomprensibile, su cui scherzò anche lo stesso Chandler, causò più di un momento di smarrimento tra gli attori.

La scala a chiocciola (Robert Siodmak, 1946)



Attraverso una narrazione dal taglio fortemente psicanalitico, Siodmak costruisce un mistery-movie gotico ad alta tensione che non rientra nel territorio del noir in senso stretto, ma ne conserva tutte le caratteristiche dal punto di vista visivo. Un classico senza tempo con forti rimandi al tema del perturbante freudiano («Deve essere qualcuno di noi. Qualcuno che conosciamo e che forse vediamo ogni giorno»), che si addentra con maestria nel territorio del voyeurismo, della paura, della follia e della perversione.  La “scala a chiocciola”, che non a caso finisce nel buio di un'oscura cantina, è la perfetta rappresentazione della mente distorta dell'assassino che minaccia una famiglia i cui componenti sono tutti ambigui ed enigmatici. Regia raffinatissima, con i dettagli dell'occhio dell'omicida che hanno fatto scuola, e memorabile fotografia del grande Nicholas Musuraca.

Anima e corpo (Robert Rossen, 1947)


Meravigliosamente scritto da Abraham Polonsky (regista, sceneggiatore e scrittore statunitense finito nella black list di Hollywood durante il maccartismo, a causa della sua attività comunista) e diretto con piglio personale da Robert Rossen (Lo spaccone, Lilith), Anima e corpo è uno dei titoli fondamentali all'interno del noir sociale, capace di restituire con crudo realismo il sordido mondo del pugilato americano degli anni '40. Un duro atto di accusa che si scaglia contro il marcio di un mondo popolato da individui senza scrupoli, che mette al centro della vicenda un proletario, privo di risorse intellettuali, bramoso di distinzione e riconoscibilità, splendidamente interpretato da John Garfield. Grazie al clamoroso montaggio di Francis D. Lyon e Robert Parrish, meritatamente premiato con l'Oscar, le sequenze degli incontri sono ancora oggi di una modernità inaudita. Se ne ricorderà Scorsese nel suo Toro scatenato (1980). Superba fotografia di James Wong Howe e finale da antologia.

Le catene della colpa (Jacques Tourneur, 1947)



Titolo di importanza capitale della seconda metà degli anni '40, Le catene della colpa è uno dei migliori esempi di noir classico incentrato sul peso del passato che ritorna e influisce inevitabilmente sul presente. Suggestivo e affascinante nel suo mix di disperazione e cinico romanticismo, il film innalza Robert Mitchum a simbolo definitivo di un interno genere. Il suo Jeff Bailey, ex detective privato che ha provato a ricrearsi una vita lontana da un mondo malato, rappresenta al meglio il postulato del noir secondo cui non si può sfuggire al proprio destino. Conscio di non avere possibilità di cavarsela, Bailey è un eroe malinconico, predestinato al fallimento, disilluso nei confronti del futuro. Il direttore della fotografia Nicholas Musuraca, maestro della luce, si conferma qui uno dei massimi artefici del visual style noir del periodo.

Dietro la porta chiusa (Fritz Lang, 1947)



Dopo la lunga parentesi di film semi-propagandistici girati durante la Seconda guerra mondiale per gli americani, Fritz Lang torna al suo cinema e alle sue ossessioni con un intrigante noir dalla marcata sovrastruttura simbolica. Intriso di sottotesti psicanalitici, il film si addentra nelle pieghe più oscure della mente e dell'animo umano, diventando anche una suggestiva rappresentazione del rapporto amoroso visto in termini di paura e sopraffazione. Opera di grande classe, tutta giocata su un'atmosfera torbida e sensuale. Magnifica fotografia di Stanley Cortez, storico direttore delle luci americano che collaborò anche con Orson Welles (L'orgoglio degli Amberson), Charles Laughton (La morte corre sul fiume) e Samuel Fuller (Il corridoio della paura).

Chiamate Nord 777 (Henry Hathaway, 1948)


Ispirato a una storia vera, un film quasi unico nella storia del genere noir. Henry Hathaway non si limita a una messinscena realistica, ma mescola la finzione con il documentario, per dare maggiore credibilità al tutto: una scelta perfetta per rendere al meglio quella ricerca di verità assoluta a cui tende il giornalista protagonista (James Stewart), determinato a fare luce sulle accuse mosse a due immigrati polacchi riguardo l'omicidio di un poliziotto.  Il risultato è indimenticabile, e non soltanto per la “tecnica mista” utilizzata. Un film diretto e senza fronzoli, ben supportato dall'elegante fotografia di Joseph MacDonald, che gioca con la luce e crea curiosi contrasti visivi dal respiro espressionista.

La città nuda (Jules Dassin, 1948)


Fin dal titolo, si coglie come il film sia una radiografia della città protagonista, New York, ritratta nei suoi angoli più oscuri, nei volti vissuti dei suoi abitanti, nei quartieri distanti, eppure vicinissimi, dalle luci dei grattacieli e dei teatri di Broadway. Colpisce il respiro realistico dato alla vicenda, a cui contribuisce lo stile semidocumentaristico di una regia impeccabile. In definitiva, un grande noir poliziesco ricco di risvolti sociologici e di riflessioni sulla vita delle grandi metropoli. Visivamente impressionante, il film è stato in larga parte girato in esterni. Nome di spicco all'interno del genere noir, Jules Dassin fu una delle vittime della "caccia alle streghe" portata avanti dal senatore Joseph McCarthy nel tentativo di epurare i simpatizzanti comunisti dal mondo del cinema. Ostracizzato al pari di altri registi e sceneggiatori, in Francia realizzerà Rififi (1955), capolavoro assoluto del noir esistenziale che influenzerà non poco l'opera di Jean-Pierre Melville. Due Oscar: fotografia (William H. Daniels) e montaggio (Paul Weatherwax).

Schiavo della furia (Anthony Mann, 1948)



Il risultato più alto ottenuto da Anthony Mann prima di approdare al western è un meraviglioso noir secco e stilizzato, potente nella messinscena e originalissimo nella narrazione. Uno dei vertici assoluti del genere, con un memorabile looser protagonista, evaso senza speranza, e con al centro della storia un anticonvenzionale triangolo sentimentale. Sulla base di pochi, mirati elementi, Mann ha dato sfoggio di tutta la sua maestria dietro la macchina da presa, regalando soluzioni di regia di vertiginosa bellezza. Un perfetto concentrato di tutta la poetica noir, resa in maniera visivamente strabiliante dal direttore della fotografia John Alton, colui che forse più di chiunque altro riuscì a definire un'estetica di genere. Indimenticabile Raymond Burr nei panni del sadico cattivo.

Il terzo uomo (Carol Reed, 1949)


Una Vienna sinistra e affascinante, Orson Welles titanico come non mai, il celeberrimo motivo per cetra Harry Lime's Theme di Anton Karas, la fotografia di Robert Krasker, il finale con la camminata di Alida Valli. Sono solo alcuni degli elementi di culto di uno dei più grandi noir di sempre, che chiude, non solo simbolicamente, la stagione d'oro del genere. Il soggetto di Graham Greene, il quale riscrisse poi la sua meravigliosa sceneggiatura sotto forma di romanzo nel 1950, porta sullo schermo un intrigo cupo e misterioso, in cui, ovviamente, nulla è come sembra. Il film più importante di Carol Reed, finissimo cineasta britannico da ricordare anche per Il fuggiasco (1947) e Idolo infranto (1948). «In Italia per trent'anni, sotto i Borgia, ci furono guerre, terrore, omicidi, carneficine, ma vennero fuori Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera non ci fu che amore fraterno, ma in cinquecento anni di quieto vivere e di pace che cosa ne è venuto fuori? L'orologio a cucù». Indimenticabile.

Davide Dubinelli
Maximal Interjector
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