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Fuga e coercizione: i due pilastri del cinema di Pablo Larraín

Evasione e costrizione: sono queste alcune delle tematiche maggiormente ricorrenti nel cinema di Pablo Larraín. Un tipo di cinema socialmente e politicamente impegnato, quello del regista cileno, in cui è manifesto tutto l’interesse dell’autore per la travagliata storia della sua patria.

Già la scelta del titolo del suo esordio dietro la macchina da presa, correva l’anno 2006 quando Fuga presentava al mondo quello che sarebbe diventato uno degli autori sudamericani più importanti dell’ultimo decennio, a posteriori risulta largamente anticipatorio, nonché eblematico, di quello che sarebbe poi stato il fil rouge della sua poetica. Fuga è un’opera prima un po’ sottovalutata, piena di quegli elementi di riflessione (dal controllo sulle menti da parte di figure autoritarie alla necessità di scappare degli artisti da una società che non li comprende) che diventeranno in seguito il vero e proprio marchio di fabbrica di Larraín.

Nei due film successivi, Tony Manero (2008) e Post Mortem (2010), lo spettro di un governo oppressivo, in grado di soffocare ogni soffio di ribellione nello spirito delle persone e ridurle così a figure, ora psicotiche, ora ridotte a condurre un’esistenza anestetizzata, intreccia sempre più le glaciali maglie della coercizione attorno ai personaggi di cui seguiamo le vicende. In Tony Manero la narrazione si concentra su un protagonista glaciale e respingente, simbolo degli abusi di un sistema governativo marcio e assolutista e perfetta metafora delle storture di un Cile sull'orlo del baratro; il mito americano, anziché dare conforto e speranza di una momentanea libertà dall'oppressione, diventa funzionalmente mezzo di esaltazione psicotica e malata, veicolo per compiere e giustificare brutalità di ogni sorta.

In Post Mortem viene messo in scena l'orrore della Storia, tratteggiando l'apocalisse cilena seguita alla destituzione di Allende, e lo spettro della dittatura: a filtrare le miserie di una realtà inaccettabile, lo sguardo pietrificato e vacuo del protagonista, impotente alla ribellione e desideroso di rifugiarsi nell'utopia di un sentimento.

In No – I giorni dell’arcobaleno (2012) assistiamo a un incisivo apologo antitotalitarista, elogio sfrenato alla libertà di pensiero e inno a una doverosa, quanto troppo a lungo negata, democrazia. Grazie alla vittoria al referendum, resa possibile grazie a una campagna pubblicitaria, ebbe così fine la dittatura di Augusto Pinochet ma, a volere essere osservatori critici, la fuga di un intero Paese dal proprio oppressore si concluse nientepopodimeno grazie a un compromesso. La vittoria del partito democratico fu possibile soltanto con lo scendere a patti con logiche e regole dettate dal sistema capitalistico (la campagna pubblicitaria ne è l’emblema), un sistema che ha sempre più spinto il mondo verso globalizzazione e consumismo.

La capacità di adattamento del potere, il suo sapersi ciclicamente adattare e modellare in funzione dei nuovi tempi è stato quindi inevitabilmente il tema conseguenziale trattato dal regista cileno in Il club (2015): una spietata allegoria della Chiesa cattolica e dei suoi peccati. Il silenzio e l’omertà si erigono a protezione di un sistema marcio e impossibile da debellare.

Anche in Neruda (2016) troviamo il tema dell’evasione: lo scrittore premio Nobel per la letteratura nel 1971 è infatti in fuga dal regime. Eroe e antieroe convergono in un’unica entità, politicamente agli antipodi ma spiritualmente vicinissimi. Un'accorata pellicola di straordinaria umanità, dove la ricerca costante di identità sembra riguardare i protagonisti ma anche una intera nazione.

In Jackie (2016) Larraín mette a confronto la figura pubblica e privata di un’icona come Jackie Kennedy. Jackie è anche una riflessione sulla crudele labilità del tempo e della memoria, oltre che sull’universale senso di solitudine e inadeguatezza dinanzi al volgere degli eventi che accomuna ogni essere umano, speranzoso di lasciare un segno di sé nelle pagine della storia, dando un senso alla propria vita e alla propria sofferenza, un tentativo di evadere, se vogliamo, dalla futilità dell’esistenza.

Il tema della fuga non manca di certo nell’ultima fatica del regista: Ema (2019). Il lungometraggio si apre infatti con un semaforo che sta bruciando, segno di quel desiderio di non seguire le regole che ha la giovane protagonista, coerente con un film che di convenzionale ha davvero poco.


Simone Manciulli

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