Edgar

Reitz

1 novembre 1932, Morbach (Germania)
Regista e sceneggiatore tedesco. All’inizio degli anni ’50 si trasferisce a Monaco di Baviera, dove frequenta l’Università e inizia a coltivare il legame col cinema affiancandolo alla letteratura, al teatro sperimentale, alla scrittura e all’animazione teatrale. Il suo rapporto con la settima arte muove da interessi ad ampio raggio e premesse scientifiche, che lo indirizzano in egual misura verso sceneggiature, film-saggio e ruoli tecnici da svolgere sul set, dalla fotografia al montaggio. Anticipando di almeno due decenni il Nuovo Cinema Tedesco, Reitz si configura come uno dei padri nobili del cinema in Germania, firmando nel 1962 il “Manifesto di Oberhausen” (insieme, tra gli altri, ad Alexander Kluge) e gettando le basi dell’Institut für Filmgestaltung a Ulma (città natale di Albert Einstein), del quale sarà direttore fino al 1968 con l’appoggio di Fritz Lang, impossibilitato per motivi di salute a prendere le redini dell’istituzione. Nello stesso anno contribuisce a rendere il cinema materia d’insegnamento nelle scuole e prosegue l’attività didattica, che lo rende un cineasta per certi versi marginale e insolito, dedito soprattutto a cortometraggi e alla valorizzazione pedagogica e poetica del cinema e delle possibilità espressive degli autori, sul piano privato e dunque anche su quello politico. Alfiere dello Junger  Deutscher Film e portavoce teorico delle ansie di rinnovamento giovanili dell’epoca, il suo esordio alla regia vero e proprio avviene con Mahlzeiten (1967), parabola sentimentale che mostra a chiare lettere l’influenza del cinema della Nouvelle Vague e di Godard in particolare, premiata alla Mostra del Cinema di Venezia come miglior opera prima. Due anni dopo realizza Cardillac (1969), parabola ossessiva tratta da un racconto di E.T.A. Hoffman e fortemente influenzata dal ’68, per poi riadattare liberamente la storia di Giasone e del Vello d’oro ne La cosa d’oro (Das goldene Ding, 1972). Con Il viaggio a Vienna (Die Reise nach Wien, 1973) firma una delle sue opere più controverse, accusata in patria di banalizzare il nazismo in chiave leggera. Il fallimento de Il sarto di Ulm (Der Schneider von Ulm, 1979), storia dal sapore molto novecentesco sul tema archetipico del volo, lo getta in uno stato di profondo sconforto da cui scaturirà Heimat (Heimat - Eine Chronik in elf Teilen, 1984), prima parte di un progetto titanico, concepito per la tv tedesca, che Reitz si sobbarca con lo scopo di raccontare la storia tedesca del XX secolo attraverso la lente delle piccole-grandi storia di una famiglia di un piccolo villaggio del suo paese. Suddiviso in 11 episodi per un totale di 15 ore, Heimat, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 1987, inaugura uno dei capisaldi più significativi della storia del cinema d’autore europeo e muove dai profondi e ancestrali interrogativi che Reitz, maestro nella gestione del bianco e nero e del colore, rivolse a se stesso, alle proprie origini personali e familiari e al suo ruolo d’artista immerso nel flusso della Storia e schiacciato dai dubbi esistenziali del Secolo Breve. Seguiranno, nell’arco di oltre un ventennio, Heimat 2 - Cronaca di una giovinezza (Die zweite Heimat – Chronik einer Jugend, 1992), capolavoro assoluto che abbraccia la totalità delle emozioni umane e si pone all’apice del progetto e della storia del cinema, Heimat 3 – Cronaca di una svolta epocale (Heimat 3 – Chronik einer Zeitenwende, 2004) e l’ultimo L'altra Heimat – Cronaca di un sogno (Die Andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht, 2013), primo film della serie a non essere concepito per la televisione e nuovamente presentato, fuori concorso, alla Mostra del Cinema di Venezia.
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