A Real Pain
A Real Pain
Premi Principali
Oscar al miglior attore non protagonista 2025
Durata
90
Formato
Regista
I cugini David Kaplan (Jesse Eisenberg) e Benji Kaplan (Kieran Culkin), ebrei statunitensi, decidono di partire per un viaggio in Polonia, terra d’origine della nonna sopravvissuta ai campi di sterminio. Il viaggio tra Varsavia e Lublino si dimostra l’occasione per ritrovarsi e per ricostituire il loro legame commisto di affetto, ammirazione e gelosia.
A Real Pain, secondo lungometraggio da regista per Jesse Eisenberg (dopo Quando avrai finito di salvare il mondo), è un film costruito a immagine e somiglianza delle ossessioni e nevrosi del suo autore, che sembra ricalcare nel ritmo e nell’estetica l’attitudine un po’ goffa e agitata dello stesso Eisenberg. Il titolo gioca con l’equivoco tra il dolore vero e profondo dei due protagonisti e il ruolo di vero rompiscatole di Benji, la classica pecora nera della famiglia, carismatico e impulsivo, al contrario del cugino David, più riflessivo, impacciato e decisamente meno brillante. Il dolore di Benji, e forse anche dello stesso Eisenberg, è quello individuale di un giovane adulto alle prese con un’esistenza irrisolta, scandita da idiosincrasie e da un profondo senso di solitudine e incomprensione. Entrambi i protagonisti riflettono la difficoltà della propria generazione di sentirsi parte di qualcosa, di sentirsi accolti e adeguati, di rispettare le aspettative di quegli americani immigrati o di prima generazione che con fatica hanno permesso ai loro figli di condurre esistenze agiate e spensierate. L’altra dimensione del dolore si intreccia, invece, con quello collettivo che gli ebrei americani hanno ereditato dalla storia e che i due cugini cercano disperatamente di tenere vivo in questo viaggio alla ricerca delle proprie origini e della riconciliazione con il recente lutto per la scomparsa della nonna. La straordinaria sensibilità di Benji nel corpo tormentato e reattivo di Kieran Culkin (premio Oscar come miglior attore non protagonista) ci trasporta in questo viaggio nella memoria, personale e collettiva, tradita da decenni di storia e dalla distanza fisica con i luoghi dove il dolore indicibile dell’Olocausto si è consumato. Nonostante la delicatezza di fondo e una serie di sequenze davvero emozionanti, questa distanza empatica non viene del tutto colmata dal mezzo cinematografico, neppure con una buona dose di compartecipazione cinefila (o addirittura mumblecore) alle vicende dei due cugini, e la sofferenza del titolo rimane un po' distante dallo spettatore, soprattutto in una seconda parte in cui la tensione emotiva scema e il dramma-rivalità fra cugini si perde in frasi a mezza bocca e non detti che lasciano una scia di delusione. Malgrado le ottime interpretazioni di Eisenberg e di Culkin, vero protagonista e traino emotivo del film, la sceneggiatura non esplora fino in fondo il dramma di Benji, lasciandolo più volte a metà, sospeso in archi emotivi (forse involontariamente) incompiuti e in luoghi di transizione (il treno, l’aeroporto, l’anonima casa della nonna che è la vera casa della famiglia Eisenberg) e comuni (la colonna sonora firmata da Chopin) fin troppo didascalici.
A Real Pain, secondo lungometraggio da regista per Jesse Eisenberg (dopo Quando avrai finito di salvare il mondo), è un film costruito a immagine e somiglianza delle ossessioni e nevrosi del suo autore, che sembra ricalcare nel ritmo e nell’estetica l’attitudine un po’ goffa e agitata dello stesso Eisenberg. Il titolo gioca con l’equivoco tra il dolore vero e profondo dei due protagonisti e il ruolo di vero rompiscatole di Benji, la classica pecora nera della famiglia, carismatico e impulsivo, al contrario del cugino David, più riflessivo, impacciato e decisamente meno brillante. Il dolore di Benji, e forse anche dello stesso Eisenberg, è quello individuale di un giovane adulto alle prese con un’esistenza irrisolta, scandita da idiosincrasie e da un profondo senso di solitudine e incomprensione. Entrambi i protagonisti riflettono la difficoltà della propria generazione di sentirsi parte di qualcosa, di sentirsi accolti e adeguati, di rispettare le aspettative di quegli americani immigrati o di prima generazione che con fatica hanno permesso ai loro figli di condurre esistenze agiate e spensierate. L’altra dimensione del dolore si intreccia, invece, con quello collettivo che gli ebrei americani hanno ereditato dalla storia e che i due cugini cercano disperatamente di tenere vivo in questo viaggio alla ricerca delle proprie origini e della riconciliazione con il recente lutto per la scomparsa della nonna. La straordinaria sensibilità di Benji nel corpo tormentato e reattivo di Kieran Culkin (premio Oscar come miglior attore non protagonista) ci trasporta in questo viaggio nella memoria, personale e collettiva, tradita da decenni di storia e dalla distanza fisica con i luoghi dove il dolore indicibile dell’Olocausto si è consumato. Nonostante la delicatezza di fondo e una serie di sequenze davvero emozionanti, questa distanza empatica non viene del tutto colmata dal mezzo cinematografico, neppure con una buona dose di compartecipazione cinefila (o addirittura mumblecore) alle vicende dei due cugini, e la sofferenza del titolo rimane un po' distante dallo spettatore, soprattutto in una seconda parte in cui la tensione emotiva scema e il dramma-rivalità fra cugini si perde in frasi a mezza bocca e non detti che lasciano una scia di delusione. Malgrado le ottime interpretazioni di Eisenberg e di Culkin, vero protagonista e traino emotivo del film, la sceneggiatura non esplora fino in fondo il dramma di Benji, lasciandolo più volte a metà, sospeso in archi emotivi (forse involontariamente) incompiuti e in luoghi di transizione (il treno, l’aeroporto, l’anonima casa della nonna che è la vera casa della famiglia Eisenberg) e comuni (la colonna sonora firmata da Chopin) fin troppo didascalici.