La barca è piena
Das Boot ist voll
Durata
101
Formato
Regista
Un gruppo di ebrei riesce a fuggire dalla Germania nazista e attraversa il confine con la Svizzera. La speranza di trovare un rifugio sicuro si trasforma presto in una minaccia di deportazione.
Parlare delle conseguenze del nazismo attraverso gli occhi della Svizzera è già di per sé un’operazione interessante, ma Imhoof non si limita a questo: il regista va a scardinare l’idea della neutralità elvetica, mostrando come la sua politica fosse in definitiva egoista e autoconservatrice, volontariamente cieca agli orrori che avvenivano di là dal confine. I personaggi incontrati dai protagonisti hanno quasi tutti un retrogusto sgradevole, di un’umanità che fa sempre più fatica a praticare atti di altruismo, bloccata da norme e pregiudizi che li fanno ragionare innanzitutto a livello utilitaristico, e che solo in seconda battuta riesce a far entrare in gioco l’empatia. Al regista non serve urlare o calcare la mano per essere efficace: la sua critica al mito di una Svizzera neutrale e per questo virtuosa colpisce nel segno senza bisogno di esplicitazioni ridondanti o scene gratuitamente ad effetto. Anche il passato dei rifugiati viene accennato solamente e resta quindi relegato a una potente atmosfera di non detti, mentre il loro futuro viene menzionato da didascalie sullo sfondo dell’ultima glaciale inquadratura, tragicamente (e solo apparentemente) pacifica, che per un’ennesima ultima volta rifiuta qualsiasi voyeurismo del dolore. Un film che scava quasi impercettibilmente ma che poi resta dentro, e il suo dito è puntato contro tutta la società che troppo facilmente si autoassolve. Candidato all’Oscar per il miglior film straniero.
Parlare delle conseguenze del nazismo attraverso gli occhi della Svizzera è già di per sé un’operazione interessante, ma Imhoof non si limita a questo: il regista va a scardinare l’idea della neutralità elvetica, mostrando come la sua politica fosse in definitiva egoista e autoconservatrice, volontariamente cieca agli orrori che avvenivano di là dal confine. I personaggi incontrati dai protagonisti hanno quasi tutti un retrogusto sgradevole, di un’umanità che fa sempre più fatica a praticare atti di altruismo, bloccata da norme e pregiudizi che li fanno ragionare innanzitutto a livello utilitaristico, e che solo in seconda battuta riesce a far entrare in gioco l’empatia. Al regista non serve urlare o calcare la mano per essere efficace: la sua critica al mito di una Svizzera neutrale e per questo virtuosa colpisce nel segno senza bisogno di esplicitazioni ridondanti o scene gratuitamente ad effetto. Anche il passato dei rifugiati viene accennato solamente e resta quindi relegato a una potente atmosfera di non detti, mentre il loro futuro viene menzionato da didascalie sullo sfondo dell’ultima glaciale inquadratura, tragicamente (e solo apparentemente) pacifica, che per un’ennesima ultima volta rifiuta qualsiasi voyeurismo del dolore. Un film che scava quasi impercettibilmente ma che poi resta dentro, e il suo dito è puntato contro tutta la società che troppo facilmente si autoassolve. Candidato all’Oscar per il miglior film straniero.