La città della gioia
City of Joy
Durata
132
Formato
Regista
Max Lowe (Patrick Swayze), giovane e brillante medico statunitense, lascia il suo paese dopo la morte di una ragazzina durante un suo intervento chirurgico e decide di partire per l'India. A Calcutta, le vicende di Max si intersecano con quelle della gente del luogo e il suo viaggio si trasforma presto in qualcosa di molto di più di un giro turistico.
Tratto dall'omonimo best seller di Dominique Lapierre del 1985 e ambientato nel crudo scenario delle bidonville di Calcutta, un film in cui è evidente l'amore del regista Roland Joffé per il mondo indiano: il regista cerca di ritrarlo con obiettività documentaristica anche se un po' gonfiata, esteticamente, dai molti mezzi a disposizione, confrontandosi con tematiche sociali e politiche scottanti. Lo sguardo di Joffé non trova però il passo giusto per incidere davvero, rischiando di ridursi a un mero osservatore che cerca di riscattare attraverso la drammatizzazione del racconto i propri sensi di colpa e quelli dell'intero Occidente. Va in questa direzione anche la retorica espansa dei buoni sentimenti e della forza di volontà: il protagonista è infatti in forte ed evidente crisi esistenziale e in cerca di una personale redenzione morale, e finisce pertanto per assistere poveri e lebbrosi quasi come fosse un salvacondotto. In parallelo viene raccontata l'Odissea del contadino Hasari Pal (Omu Puri): una parte che ci riporta a una realtà più cronachistica e meno oleografica, a una condizione di vita più brutale e senza mediazioni. Il film di Joffé è tutto qui, in questa oscillazione tra verità e artificio, che incontra sulla sua strada tanti buoni passaggi ma anche qualche fisiologico inciampo. Notevole, in ogni caso, la spettacolarità dell'operazione, con fotografia e ambientazione particolarmente suggestive e accattivanti, anche se a volte si ha l'impressione di essere davanti a un kolossal hollywoodiano piuttosto che a una denuncia di una tragedia che si perpetua da secoli. Si poteva fare di meglio.
Tratto dall'omonimo best seller di Dominique Lapierre del 1985 e ambientato nel crudo scenario delle bidonville di Calcutta, un film in cui è evidente l'amore del regista Roland Joffé per il mondo indiano: il regista cerca di ritrarlo con obiettività documentaristica anche se un po' gonfiata, esteticamente, dai molti mezzi a disposizione, confrontandosi con tematiche sociali e politiche scottanti. Lo sguardo di Joffé non trova però il passo giusto per incidere davvero, rischiando di ridursi a un mero osservatore che cerca di riscattare attraverso la drammatizzazione del racconto i propri sensi di colpa e quelli dell'intero Occidente. Va in questa direzione anche la retorica espansa dei buoni sentimenti e della forza di volontà: il protagonista è infatti in forte ed evidente crisi esistenziale e in cerca di una personale redenzione morale, e finisce pertanto per assistere poveri e lebbrosi quasi come fosse un salvacondotto. In parallelo viene raccontata l'Odissea del contadino Hasari Pal (Omu Puri): una parte che ci riporta a una realtà più cronachistica e meno oleografica, a una condizione di vita più brutale e senza mediazioni. Il film di Joffé è tutto qui, in questa oscillazione tra verità e artificio, che incontra sulla sua strada tanti buoni passaggi ma anche qualche fisiologico inciampo. Notevole, in ogni caso, la spettacolarità dell'operazione, con fotografia e ambientazione particolarmente suggestive e accattivanti, anche se a volte si ha l'impressione di essere davanti a un kolossal hollywoodiano piuttosto che a una denuncia di una tragedia che si perpetua da secoli. Si poteva fare di meglio.