Happiness
Happiness
Durata
137
Formato
Regista
Le vicissitudini della famiglia Jordan. Joy (Jane Adams) è una trentenne frustrata che lavora in un call center ma sogna di sfondare nel mondo della musica. La sorella Trish (Cynthia Stevenson) è sposata, ha due figli e una bella casa. Suo marito Bill (Dylan Baker) è uno psicologo con tendenze pedofile. L'altra sorella, Helen (Lara Flynn Boyle), è un'altezzosa scrittrice, bella e di successo, che rimane affascinata dalle telefonate anonime di un uomo che le racconta cose oscene al telefono: scoprirà che si tratta di Allen (Philip Seymour Hoffman), l'insicuro vicino di casa che ha sempre ripudiato.
A partire dal titolo, Happiness ironizza ferocemente sulla fallimentare ricerca della felicità, che ossessiona l'uomo costringendolo alla perenne insoddisfazione. Il regista Todd Solondz sceglie, come punto di vista principale per indagare l'infelicità della società contemporanea, la famiglia, luogo sotterraneo di apparente perfezione dove si annidano segreti e torbide ossessioni. L'intento di Solondz è, infatti, quello di scardinare e rovesciare i valori fondamentali del sogno americano, affrontando di petto tematiche scomode (pedofilia, crisi dei ruoli sociali, incomunicabilità), ma che riguardano tutti da vicino. E, per affrontarle, accosta alla freddezza e alla crudezza delle tematiche una regia, una fotografia e delle scelte musicali, di spiazzante “normalità” e delicatezza. La scena in cui lo psicologo Bill confessa al figlio Billy di essere un pedofilo, caratterizzata da una tensione linguistica disarmante, è da annoverare tra le più crude e violente della storia degli anni Novanta, nonostante non scorra nemmeno una goccia di sangue. La disperazione dei protagonisti si accumula, intessendo un arazzo di umane brutture, di cui è catartico e al contempo doloroso riderne. Cast in ottima forma e colonna sonora, tra musica classica e pop, di alto livello.
A partire dal titolo, Happiness ironizza ferocemente sulla fallimentare ricerca della felicità, che ossessiona l'uomo costringendolo alla perenne insoddisfazione. Il regista Todd Solondz sceglie, come punto di vista principale per indagare l'infelicità della società contemporanea, la famiglia, luogo sotterraneo di apparente perfezione dove si annidano segreti e torbide ossessioni. L'intento di Solondz è, infatti, quello di scardinare e rovesciare i valori fondamentali del sogno americano, affrontando di petto tematiche scomode (pedofilia, crisi dei ruoli sociali, incomunicabilità), ma che riguardano tutti da vicino. E, per affrontarle, accosta alla freddezza e alla crudezza delle tematiche una regia, una fotografia e delle scelte musicali, di spiazzante “normalità” e delicatezza. La scena in cui lo psicologo Bill confessa al figlio Billy di essere un pedofilo, caratterizzata da una tensione linguistica disarmante, è da annoverare tra le più crude e violente della storia degli anni Novanta, nonostante non scorra nemmeno una goccia di sangue. La disperazione dei protagonisti si accumula, intessendo un arazzo di umane brutture, di cui è catartico e al contempo doloroso riderne. Cast in ottima forma e colonna sonora, tra musica classica e pop, di alto livello.