Il colibrì
Durata
126
Formato
Regista
Marco Carrera (Pierfrancesco Favino), medico di professione, sposato con Marina Molitor (Kasia Smutniak) e padre di Adele (Benedetta Porcaroli), vive costantemente la sua esistenza in uno stato passivo e catatonico. Reduce da un trauma adolescenziale causato dalla morte della sorella, dal quale non si riprenderà mai, viene continuamente preso di mira dalle sfortune della vita.
Prendendo spunto dal romanzo omonimo di Sandro Veronesi, Francesca Archibugi – insieme agli sceneggiatori Francesco Piccolo e Laura Paolucci – porta sul grande schermo una rappresentazione della vita totalmente fallimentare, di cui il protagonista è involontariamente vittima e dalla quale non riesce a reagire né a cambiare la sua sorte. Al centro della narrazione, però, c’è un ragionamento più universale che va a mettere in risalto certe falsità del ceto sociale borghese, tra traumi irrisolti, infelicità e menzogne. Se il personaggio principale è ben tratteggiato, più fugaci sono le figure di contorno, la cui presenza risulta rilevante solo per decretare le sorti del destino del personaggio principale. Nessuna delle figure secondarie viene sviluppata con grande attenzione, rischiando di allontanare lo spettatore da diversi passaggi della vicenda messa in scena. Il coinvolgimento funziona così soltanto con il protagonista, ben interpretato da Pierfrancesco Favino in un ruolo non semplice, con cui la sceneggiatura riesce incisivamente a farci empatizzare. Un po’ poco, viste le importanti premesse alla base di questo testo e che finiscono per rendere l’esito della visione sufficiente e nulla più.
Prendendo spunto dal romanzo omonimo di Sandro Veronesi, Francesca Archibugi – insieme agli sceneggiatori Francesco Piccolo e Laura Paolucci – porta sul grande schermo una rappresentazione della vita totalmente fallimentare, di cui il protagonista è involontariamente vittima e dalla quale non riesce a reagire né a cambiare la sua sorte. Al centro della narrazione, però, c’è un ragionamento più universale che va a mettere in risalto certe falsità del ceto sociale borghese, tra traumi irrisolti, infelicità e menzogne. Se il personaggio principale è ben tratteggiato, più fugaci sono le figure di contorno, la cui presenza risulta rilevante solo per decretare le sorti del destino del personaggio principale. Nessuna delle figure secondarie viene sviluppata con grande attenzione, rischiando di allontanare lo spettatore da diversi passaggi della vicenda messa in scena. Il coinvolgimento funziona così soltanto con il protagonista, ben interpretato da Pierfrancesco Favino in un ruolo non semplice, con cui la sceneggiatura riesce incisivamente a farci empatizzare. Un po’ poco, viste le importanti premesse alla base di questo testo e che finiscono per rendere l’esito della visione sufficiente e nulla più.