
La nera di...
La Noire de…
Durata
56
Formato
Regista
Storia della giovane donna senegalese Diouana (Mbissine Thérèse Diop), trasferitasi da Dakar, Senegal, ad Antibes, Francia, per lavorare per una coppia francese. In Francia, Diouana spera di continuare il suo precedente lavoro come tata e si aspetta un nuovo stile di vita cosmopolita ma vedrà infrangersi i suoi sogni nel razzismo colonialista di cui i suoi padroni incarnano l'essenza.
A differenza della sua successiva filmografia, Sembène sceglie di dirigere questo suo primo lungometraggio in francese. La lingua colonizzatrice diventa quasi da subito sinonimo di incomunicabilità: si contano sulle dita di una mano le frasi che Diouana dirà direttamente ai suoi datori di lavoro, restando per la maggioranza del tempo a struggersi in un monologo interiore pieno di dubbi e di dolore. La denuncia anticolonialista e antirazzista del regista sa colpire a fondo senza mezzi termini (agghiacciante, in questo senso, la scena del pranzo con gli amici di famiglia). Nonostante la programmaticità del suo messaggio però, Sembène non scade mai nel didascalismo più stanco e scolastico e anche la caratterizzazione dei personaggi (tra i neri abbagliati dalle promesse coloniali di una migliore vita in Europa, e i bianchi “perdenti” post-indipendenza del Senegal, costretti a tornare in Francia e a una vita meno agiata) è decisamente meno manichea di quello che potrebbe sembrare a una visione superficiale. La protagonista, come il resto del cast, non è un attrice professionista, ma riesce a bucare lo schermo e a emozionare, grazie anche a una fotografia efficace e valorizzante. Non mancano elementi fortemente simbolici, come la maschera: prima dono di Diouana alla famiglia che serve, e poi strumento usato dal fratellino di lei per allontanare il bianco dalla sua casa, in un finale in cui l’infanzia e la tradizione, il presente futuribile e il passato, alternano i loro volti per indicare, forse, una via verso la decolonizzazione effettiva. Tratto da un racconto scritto dallo stesso regista, a sua volta ispirato a un vero fatto di cronaca.
A differenza della sua successiva filmografia, Sembène sceglie di dirigere questo suo primo lungometraggio in francese. La lingua colonizzatrice diventa quasi da subito sinonimo di incomunicabilità: si contano sulle dita di una mano le frasi che Diouana dirà direttamente ai suoi datori di lavoro, restando per la maggioranza del tempo a struggersi in un monologo interiore pieno di dubbi e di dolore. La denuncia anticolonialista e antirazzista del regista sa colpire a fondo senza mezzi termini (agghiacciante, in questo senso, la scena del pranzo con gli amici di famiglia). Nonostante la programmaticità del suo messaggio però, Sembène non scade mai nel didascalismo più stanco e scolastico e anche la caratterizzazione dei personaggi (tra i neri abbagliati dalle promesse coloniali di una migliore vita in Europa, e i bianchi “perdenti” post-indipendenza del Senegal, costretti a tornare in Francia e a una vita meno agiata) è decisamente meno manichea di quello che potrebbe sembrare a una visione superficiale. La protagonista, come il resto del cast, non è un attrice professionista, ma riesce a bucare lo schermo e a emozionare, grazie anche a una fotografia efficace e valorizzante. Non mancano elementi fortemente simbolici, come la maschera: prima dono di Diouana alla famiglia che serve, e poi strumento usato dal fratellino di lei per allontanare il bianco dalla sua casa, in un finale in cui l’infanzia e la tradizione, il presente futuribile e il passato, alternano i loro volti per indicare, forse, una via verso la decolonizzazione effettiva. Tratto da un racconto scritto dallo stesso regista, a sua volta ispirato a un vero fatto di cronaca.