I rapporti tra i membri della famiglia Lunies si sono incrinati da molto tempo. Lissy (Corinna Harfouch) è silenziosamente felice del lento deperimento del marito Gerd (Hans-Uwe Bauer), afflitto da demenza, in una casa di riposo. Ma la sua nuova libertà è di breve durata: diabete, cancro e insufficienza renale fanno sì che anche a lei non rimanga molto tempo. Il figlio Tom (Lars Eidinger), un direttore d’orchestra sulla quarantina, sta lavorando a una composizione intitolata Dying, e allo stesso tempo è stato nominato padre surrogato della figlia della sua ex fidanzata. Ellen (Lilith Stangenberg), la sorella di Tom, inizia una relazione con Sebastian, sposato, con il quale condivide la passione per l’alcol. Quando la Morte si presenta alla porta di casa, i membri della famiglia finalmente si ritrovano. 

La ripresa in verticale di una bambina che ci chiede di vivere seguendo il nostro cuore apre il riuscito lungometraggio di Matthias Glasner Lo spartito della vita, il cui titolo originale Sterben evoca, di contro, il concetto di Morte. Ed è proprio il binomio vita-morte a essere il perno attorno a cui il regista tedesco, autore di oltre venti lungometraggi, costruisce un film di chiaro stampo autobiografico. Glasner, che è anche musicista, ritrova infatti nel direttore d’orchestra, protagonista del racconto, il proprio alter ego in scena; inoltre, gran parte di ciò che vediamo sullo schermo è tratto, più o meno fedelmente, dalla vita personale e famigliare del regista, che dedica il film alla sua famiglia. Diviso in cinque capitoli – tre per presentare la madre Lissy, l’alter ego Tom e sua sorella Ellen, due dedicati ad amore e vita – il racconto restituisce l’ineluttabile scorrere dell’esistenza di una famiglia segnata da rimpianti, non detti, sensi di colpa e reciproche accuse. Non è un caso, quindi, che in questo sofferente ritratto famigliare l’autore tedesco guardi al cinema di Ingmar Bergman, di cui viene citato esplicitamente il capolavoro Fanny e Alexander (1982), mentre Sussurri e Grida (1972) sembra echeggiare in filigrana. Glasner orchestra, così, un’opera che si muove come una composizione sinfonica sospesa tra dolore, perdita e la presenza costante della morte che attraversa ogni inquadratura della pellicola. Eppure, nonostante il peso esistenziale che accompagna le più di tre ore di visione, il film trova costantemente il modo di stemperarne la gravità, lasciando trasparire tutta l’umanità e tenerezza dei propri personaggi. È in questo spazio, quello deputato alle immagini, che il regista sembra voler affidare al cinema il ruolo di terapeuta, da una parte esorcizzando il proprio vissuto, dall’altra condividendolo con lo spettatore per farlo diventare esperienza universale. Qualche prolissità di troppo e qualche didascalismo non mancano, purtroppo, ma il disegno d'insieme è efficace e il risultato degno di essere menzionato positivamente. 






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