A seguito di una tragedia personale, Harper (Jessie Buckley) si ritira da sola nella rigogliosa campagna inglese, sperando di trovare un luogo dove curare il dolore che la accompagna. Ma dai boschi circostanti sembra materializzarsi qualcosa o qualcuno che inizia a perseguitarla. Quello che inizialmente è un’inquietudine sottesa si trasforma ben presto in un vero e proprio incubo, abitato dai suoi ricordi e dalle sue paure più oscure che prendono forma. 

A partire dal dramma di una donna ossessionata dai sensi di colpa per il suicidio del marito alla vigilia del loro divorzio, Alex Garland, giunto alla sua opera terza dopo Ex Machina (2015) e Annientamento (2018), firma un film molto più tradizionale dei suoi predecessori, lavorando però ancora una volta sul senso di estraniamento di una realtà dislocata. Stavolta l’assunto di base è di matrice molto più rurale e arcaica rispetto ai due film precedenti, con una forte nozione di perturbante nella commistione selvaggia tra umanità e natura. Scegliendo di far interpretare praticamente tutti i personaggi maschili a un unico attore, Rory Kinnear, che veste i panni del padrone di casa, del prete e degli abitanti del villaggio, il regista londinese radicalizza sotto forma di blocco unico e monolitico la presenza maschile, per far leva sul senso di oppressione crescente della protagonista, interpretata da Jessie Buckley con piglio alieno e distorto, da eroina femminile pronta per essere sottratta a ogni incasellamento. Se le premesse suonano tutte parimenti interessanti, la risoluzione dell’ingranaggio di genere e delle singole trovate desta qualche perplessità in più, dai didascalismi evidenti (la mela del peccato originale mangiata in giardino da Harper) fino al crescente senso di vorticosa discesa agli inferi che si nutre degli stilemi risaputi del folk horror più estetizzante e modaiolo (non a caso a produrre c’è la A24, casa di produzione specializzata in tali operazioni patinate di cinefilia di riporto). Alla lunga Men risulta così un esperimento tanto fascinoso quanto irrisolto, che a tratti finisce per sprofondare anch’esso nello stesso tunnel, affrontando solo in parte i dilemmi e le angosce che provvede a scomodare in favore di un racconto scandito anzitutto per immagini, fino a scantonare in elementi finali molto vicini, persino troppo, a Society - The horror (1989) di Brian Yuzna. Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes.
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