Said (Kais Nashif) e Khaled (Ali Suliman) sono due amici di Nablus, dediti alla causa palestinese e insofferenti all'occupazione da parte di Israele. Nonostante Said sia attratto da Suha (Lubna Azabal), pacifista figlia di un eroe deceduto della resistenza, i giovani accettano di compiere un attentato kamikaze a Tel Aviv.

Diretto dall'arabo israeliano Hany Abu-Assad, anche sceneggiatore insieme a Bero Beyer, il primo film palestinese a essere candidato agli Oscar (e a vincere il Golden Globe come Miglior film straniero) ha l'ambizione di raccontare l'irraccontabile. Con asciuttezza e sensibilità, mostra per la prima volta l'orrore degli attentati suicidi dal punto di vista degli stessi terroristi, umanizzandoli senza giudizi né assoluzioni, ma cercando di comprenderne le ragioni, nell'intento di sviluppare un'analisi non scontata su una situazione politica di gigantesca complessità. Abu-Assad centra il bersaglio sia sul piano narrativo-stilistico che su quello emotivo, raggiungendo per paradosso l'identificazione con i protagonisti (in particolare con Said, personaggio intenso e sfaccettato) e costruendo un'ottima pellicola che indigna, intenerisce, commuove. Girando nella vera Nablus praticamente sotto le bombe, il regista filma con mano solida, regala scene da brividi – i riti di preparazione della missione martire, l'amaro finale – e si affida a un cast di attori che lasciano il segno. Un film importante.
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