Mute
Mute
2018
Paesi
Gran Bretagna, Germania
Genere
Fantascienza
Durata
126 min.
Formato
Colore
Regista
Duncan Jones
Attori
Alexander Skarsgård
Paul Rudd
Justin Theroux
Leo (Alexander Skarsgård), un uomo muto in cerca di una persona scomparsa nell’anno 2052 a Berlino, troverà sulla sua strada due manigoldi (Paul Rudd e Justin Theroux) che gli metteranno i bastoni tra le ruote. «Per poter plasmare la sua gente, spesso Dio deve fonderla»: si apre con questo antico proverbio Amish il nuovo film di Duncan Jones, figlio regista di David Bowie, realizzato a due anni di distanza dal deludente Warcraft – L’inizio (2016), che era venuto dopo i ben più interessanti Moon (2009) e Source Code (2011). Il progetto in questione, sviluppato sotto l’egida produttiva del colosso Netflix, nonostante le premesse interessanti e i forti elementi di suggestione in campo, è un pasticcio senza appello: il mix di fantascienza e noir appare disastroso e pretenzioso, semplicistico e apparentemente inconsapevole della pochezza del proprio immaginario, succube di un lavoro di scenografia piattissimo e solo in apparenza inventivo (ci sarebbe la Berlino tanto cara al genitore del regista, ma la sua resa è sconfortante). La mistura dei due generi è tanto ambiziosa quanto farraginosa, tanto che la frase che si cita in apertura, più che dire qualcosa di interessante sul film e sul suo protagonista (un Amish, dunque non curato dai genitori dopo la collisione che l’ha privato della parola) tradisce una fusione di elementi indigesta, tossica e preoccupante. Un tempo questi progetti erano giustamente cassati dagli studios, poco propensi a finanziare pasticci dispendiosi e generi misti: Netflix, invece, non certo al primo prodotto di questo tipo, sembra puntare a briglia sciolta su tale tipologia di opere, provando a fondere a tavolino gusti diversi e potenziali utenti disparati, come fossimo dentro un algoritmo pensato a tavolino per i social più che a un oggetto audiovisivo compiuto. Meglio tacere sulla ridicolaggine melensa della storia d’amore che dovrebbe tenere insieme il tutto, sui rimandi all'immaginario di Blade Runner e sull’interpretazione imbambolata di Skarsgård, solitamente convincente. Dispiace vedere come Duncan Jones, autore di un paio di opere molto interessanti, abbia perso completamente la bussola in un simile gorgo narrativo ed estetico. Il film è dedicato alla memoria di Bowie e della babysitter Marion Scene, che si occupò di Jones dopo il divorzio dell’artista dalla moglie Angela.
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