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Far East Film Festival: i migliori film della ventiquattresima edizione
La ventiquattresima edizione del Far East Film Festival di Udine si è conclusa sabato notte con il trionfo della Corea per Miracle: Letters to the President di Jang-hoon Lee. Sono stati 72 titoli da 15 paesi e un ospite d'eccezione, "Beat" Takeshi Kitano, solo in collegamento ma assolutamente celebrato a dovere. Al di là dei premi e del sacrosanto apprezzamento del pubblico di Udine, come ogni anno, vi proponiamo però ora le nostre personali top 3!

MARCO LOVISATO 

3) TERRORIZERS di Ho Wi-ding (Taiwan)

Dici Taiwan e Terrorizers: la mente dei cinefili più agguerriti va subito al capolavoro del maestro Edward Yang, uscito sugli schermi di Taipei nel lontano 1986. Come il suo omonimo il film di Ho Wi-ding racconta le storie di un gruppo di giovani nella Taipei contemporanea, le cui vite sono connesse da un evento drammatico e violento. Leitmotiv del film è la mancanza di autentica connessione tra le persone e l'effetto del mondo virtuale (videogiochi, pornografia, chat) su quello reale, esplicitato nel personaggio di Ming Liang. Austin Lin è bravissimo nel rendere credibile un sociopatico che si potrebbe incontrare nei topic di Reddit o 4chan, inadatto al relazionarsi coi coetanei perché perso in un mondo virtuale che è tutto fuorché palestra di connessione umana. Ho è bravo a descrivere l'origine della violenza proprio perché sceglie, in modo non dissimile da quanto fatto da Van Sant in Elephant o Bonello in Nocturama, di non concentrarsi esclusivamente sul "mostro", ma di dipingere un affresco corale - strutturato in episodi dedicati a ciascun personaggio - che permette di osservare gli eventi da diversi punti di vista. La fotografia di Jean-Louis Vialard omaggia la poesia degli spazi vuoti di Edward Yang, creando inquadrature suggestive ed esteticamente straordinarie, legate tra loro dall'incedere onirico dei Nocturnes di Chopin. Tra gli altri interpreti, invece, spicca la bravissima Moon Lee, la cui Yu Fang funge da fulcro umanistico del film. Un film i cui difetti non fanno che risaltare i pregi, che evita l'effetto sensazionalistico e riesce a far riflettere.


2) TOO COOL TO KILL di Xing Wenxiong (Cina)

Too Cool to Kill è stata l'autentica rivelazione del festival, capace di conquistare sia pubblico - che ha applaudito a tratti anche a film in corso! - che giuria. L'esordiente Xing Wenxiong ha offerto un'alternativa parodistica a quei film che riflettono sull'arte e la magia del fare cinema; solo restando nell'ambito del festival abbiamo avuto esempi come Leonor Will Never Die e Legendary in Action!. Too Cool to Kill è ambientato a Lying City, ultrartificiale metaset cinematografico e microcosmo finzionale all'interno del quale si fa anche (e soprattutto) cinema. Qui il regista Mi Le e la sorella, la diva Milan, hanno ventiquattr'ore per scovare il famoso sicario Karl, che nessuno ha mai visto ma che pare essere ammiratore dell'attrice, per consegnarlo al boss Hawei. Ma invece dello spietato killer i due gli presentano l'ambiziosa comparsa Wei Changgdong, convinto a impersonare Karl con il pretesto di girare un film. Il film procede di gag in gag tra equivoci sempre più esilaranti e omaggi straordinari alla storia del cinema: Changgdong/Karl porta una parrucca che ricorda la capigliatura iconica di Vincent Vega in Pulp Fiction, spara come Chow Yun-fat in The Killer e ha imparato l'italiano guardando spaghetti western. La prova di Wei Xiang è incredibile: siamo pienamente d'accordo coi Manetti bros. e Vanja Kaludercic, membri della giuria della sezione opere prime, nel definirla alla pari con le più grandi performance comiche di sempre. Difficili fare paragoni, ma per mimica e capacità fisica di calarsi nel ruolo ci ha ricordato un po' Jim Carrey e un po' Stephen Chow. Ma anche gli interpreti di contorno non sono da meno, a partire dal perennemente sconcertato boss Chen Minghao. Il film si regge anche su una sceneggiatura e una regia impeccabili: per un esordiente, Xing ha uno straordinario controllo e senso del ritmo; inoltre il suo film è spesso creativo, soprattutto nell'ormai trita rottura della quarta parete, e riflette con forza e intelligenza sul cinema come artificio. Si ride dall'inizio alla fine e ci si commuove anche sui titoli di coda, che offrono una finestra sul processo di realizzazione del film stesso. Senza dubbio il miglior film cinese visto al FEFF in questa edizione.


1) LEONOR WILL NEVER DIE di Martika Ramirez Escobar (Filippine)

Rimaniamo nell'ambito metacinematografico con lo straordinario debutto della giovane Martika Ramirez Escobar, che sceglie di scrivere un'appassionata love letter al cinema del suo Paese coadiuvata da un'interprete straordinaria come Sheila Francisco. La Leonor del titolo è un'anziana sceneggiatrice di film d'azione, attiva soprattutto negli anni Ottanta e ora semiritirata in seguito a un incidente sul set che ha portato alla morte del giovane figlio Ronwaldo. Leonor vive con l'altro figlio Rudi, ma non ha mai dimenticato l'altro figlio, del quale porta il nome tatuato sul polso e che gli appare spesso come fantasma. Ronwaldo è anche il nome del protagonista del suo ultimo script (Ang Pagbabalik ng Kwago, ossia "Il ritorno del gufo"), che Leonor vuole sottoporre a un concorso; ma il destino ci si mette di mezzo, e un televisore caduto da una finestra spedisce Leonor in coma e, soprattutto, all'interno del film che, come in un racconto di Borges, la donna continua a scrivere nella sua mente. Per Escobar la storia di Leonor è un veicolo (non un pretesto) per tracciare una mappa culturale delle Filippine e del cinema (soprattutto di genere, popolare) come elemento di aggregazione. Vi è nel film un continuo passaggio stilistico tra schermi, supporti e formati, dal cinemascope al 4:3 televisivo. A risaltare più che il telo del cinema è il monitor del televisore, espressione di una dimensione ancora più comunitaria e tipicamente filippina. Risalta anche la dimensione fantasmatica dell'immagine catodica, replicata nello spettro autentico del figlio Ronwaldo. Sarebbe riduttivo parlare di Leonor Will Never Die come di un semplice esercizio cinefilo: l'amore per il cinema di Escobar è travolgente, ma soprattutto la storia conquista e dice cose profonde sull'elaborazione del lutto (Leonor cerca di salvare una versione fittizia del figlio nella fantasia, dopo averlo perso nella realtà). Per una debuttante, Escobar si trova a suo agio nel metacinema, e soprattutto sperimenta soluzioni e raccordi fantasiosi nel passaggio tra i tanti livelli del film. Leonor infatti non si riduce a una dicotomia tra realtà e fantasia, perché il mondo fuori dalla sceneggiatura di Leonor è esso stesso pieno di fantasmi e situazioni surreali. Il suo realismo magico è debitore di autori come Weerasethakul e Reygadas, ma a differenza di questi vi è più ritmo e innocenza. L'omaggio ai generi cinematografici popolari trova il suo climax nello scoppiettante finale musicale, che conclude in maniera emozionante un film genuinamente creativo e sorprendente.


Menzione speciale: NOISE di Hiroki Ryuichi (Giappone)

La carriera di Ryuichi Hiroki è iniziata negli anni Ottanta come regista di pinku, genere di film erotici tipicamente giapponese, e si è sviluppata nel corso del tempo parallelamente a una sempre maggiore padronanza nella caratterizzazione psicologica dei personaggi (si pensi a Vibrator o a Ride or Die). In Noise questa abilità viene applicata al mystery, toccando forse il punto più alto e regalandoci alcuni tra i momenti più felici del suo cinema. Noise è il ritratto cinico e sardonico di una piccola isola al largo del Giappone, i cui abitanti sembrano essere disposti a tutto pur di difendere l'orgoglio locale: una coltivazione di fichi, dolcissimi ma grotteschi e neri come la pece. Noise è una parabola raccontata nell'arco di diversi giorni, scanditi dai brani di musica classica suonati incessantemente dagli altoparlanti del porto, a loro volta alternati a brani di colonna sonora minimalista. Noise come rumore appunto, disturbo della pace e della quiete di un microcosmo sonnacchioso, un paradiso claustrofobico che si pensa florido ma è in realtà morente. Hiroki offre grandi spunti di riflessione antropologica e azzecca i personaggi (tra cui spicca il poliziotto interpretato dall'attore feticcio di Jarmusch Masatoshi Nagase), riuscendo a mantenere il ritmo e l'interesse per gran parte delle due ore di durata. Purtroppo la parte finale non si dimostra all'altezza, a causa dell'inserimento un po' forzato di una superflua sottotrama legata alla gelosia di uno dei personaggi, a sua volta raccontata tramite il più classico degli spiegoni. Uno scivolone che sembra togliere allo spettatore quella fiducia che Hiroki gli ha concesso per gran parte del film. Nonostante tutto Noise rimane uno dei film più riusciti e interessanti del festival.

ANDREA VALMORI 


3) ONE FOR THE ROAD di Baz Poonpiriya (Thailandia)

Unico thailandese ad avere vinto il Premio del Pubblico del Far East Film Festival, con Countdown (2012), Baz Poonpiriya ha portato a Udine la sua opera più personale e matura, per il quale si è avvalso della collaborazione di Wong Kar-wai. Presentato in anteprima al Sundance International Film Festival, One for the Road è evidentemente un road movie incentrato su due amici Boss, emigrato a New York, e Aood, che gli chiede di tornare a Bangkok in quanto malato di cancro. Sin dal maestoso incipit Poonpiriya conquista il pubblico presentando con assoluta classe la vita di un barman a Manhattan, in un film che fa della ricerca della perfezione estetica il suo vero punto di forza. Trasportati attraverso brani occidentali selezionati nella finzione dal padre di Aood, il viaggio alla ricerca delle passato dei due personaggi si trasforma in un percorso di progressiva scoperta dell'umano anche per lo spettatore. One for the Road rivela così la maturità tecnica di Poonpiriya: se i suoi primi due lungometraggi ruotano attorno a crisi improvvise che coinvolgono sin da subito i personaggi principali, in questa occasione ci sono due amici che tentano di rivivere il loro passato per dare inizio ad una nuova vita. Il ricorso a uno stile lento e commemorativo, dove la strizzata d'occhio a Wong Kar-wai è sin troppo esplicita, fa di One for the Road un viaggio riuscito nel ricordo degli anni Novanta sia per l’ambientazione sia per l’atmosfera e il tono. Una pellicola che riesce a parlare allo stesso tempo di amore, malattia, amicizia e al contempo della spaccatura interna alla borghesia thailandese. 


2) MISSING di Katayama Shinzo (Giappone/Corea del Sud)

Una coproduzione importante quella di Missing, il primo film commerciale di Katayama Shinzo, già assistente alla regia del maestro coreano Bong Joon-ho. La pellicola ha senza dubbio vibes dai suoi lavori come Memories of Murder, senza raggiungerne la qualità né l'incisività della critica sociale, ma proponendo comunque cose interessanti. Un film che ci porta all'interno di un'ambientazione atipica e lontana da contesti più cosmopoliti come Tokyo (Osaka è la città natale del regista): la vicenda è incentrata sull’imperturbabile Harada Satoshi (Sato Jiro), un tempo gestore di un club di ping pong e ora disoccupato e depresso, e Kaede (Ito Aoi), la sua coraggiosa figlia adoloscente che all’inizio del film accorre in aiuto del padre che è stato beccato a rubare in un negozio. Dopo che la figlia è riuscita a farlo rilasciare, Satoshi le racconta di aver visto un serial killer sulla cui testa pende una taglia di tre milioni di yen. Una simile cifra risolverebbe i loro problemi economici, ma il giorno successivo Satoshi scompare misteriosamente e Kaede parte immediatamente alla sua ricerca. Ecco quindi tre linee narrative dedicate ai tre personaggi principali intrecciarsi tra loro dando vita a tre diversi registri: il mystery è legato alla figlia, la black comedy nerissima alla Sion Sono al killer e infine il crime drama alla Coen al padre. Ciliegina sulla torta il bel finale con una partita di ping pong fantasma tra padre e figlia: un rimando alla linea sottile tra bene e male, giusto e sbagliato che sostiene tutto il film e che ci sorprende con un'insperata forza.  


1) ESCAPE FROM MOGADISHU di Ryoo Seung-wan (Corea del Sud)

Esplosioni, intrighi politici, risate e virtuosismi di macchina è questo il biglietto da visita con cui si presenta Ryoo Seung-wan. Escape from Mogadishu è un film che ci riguarda direttamente raccontando l'incredibile storia sviluppatasi in Somalia alla fine del 1991, quando l’ambasciatore Han Shin-sung e il suo ristretto staff dell’ambasciata sudcoreana si unirono ai loro acerrimi nemici dell’ambasciata nordcoreana per chiedere soccorso all'Italia, paese diplomaticamente forte nell'ex-colonia. La pellicola riesce prima di tutto a contestualizzare in maniera frenetica e divertente un contesto diplomatico molto chiaro, costruendo sulla scacchiera personaggi inaspettatamente sfaccettati. La spettacolarità, garantita da un alto budget, ha divertito e tenuto con il fiato sospeso il pubblico di Udine ed è impossibile non applaudire dunque Ryoo (che ricordiamo per Crying Fist, The City of Violence e The Unjust) che con Escape from Mogadishu punta ad avvicinarsi all'incredibile successo di pubblico del suo Veteran del 2014. Ryoo lavora su un quadro particolarmente ampio, catturando la disintegrazione di un’intera città insieme alla tensione e al dramma derivanti dalla situazione dei protagonisti. Interamente girato in Marocco nei mesi che hanno preceduto l’inizio della pandemia, il film è sorprendentemente realistico pur mantenendo altissimo il tasso di spettacolarità. 


Menzione speciale: ONE DAY, YOU WILL REACH THE SEA di Nakagawa Ryutaro (Giappone)

Nei primi due atti sembrava poter essere il miglior film del festival e anche qualcosa in più, invece One Day, You Will Reach the Sea si è man mano arenato nel volgersi alla conclusione. Tratta da un romanzo di Ayase Maru, la storia inizia tre anni dopo la sparizione di Sumire (Hamabe Minami), una donna socievole ma enigmatica, il giorno dello tsunami, mentre era in viaggio sulla costa di Tohoku. Il terremoto e la tragedia del 2011 al centro di un film molto profondo sull'elaborazione del lutto, diretto da Nakagawa Ryutaro che firma anche scritto la sceneggiatura in una produzione del team dietro a Drive My Car. Una riflessione che passa per gli oggetti, capaci di riportare in vita ricordi e quasi i cari scomparsi. Immagini potenti e curatissime a livello fotografico, mediate anche dal ricorso all'audiovisivo diegetico di registrazioni testimoniali e private. Una pellicola lenta, silenziosa che unisce il rispetto per chi è scomparso al tentativo di trovare un corrispettivo cinematografico all'elaborazione di un lutto (che ad un certo addirittura si duplica). Gli inserti animati posti in apertura e in chiusura incuriosiscono, ma se Ryutaro arriva a tu per tu con il portiere è in ultima analisi incapace di concludere a rete. Troppe le esitazioni e i tentennamenti che creano diversi problemi a una pellicola che comunque fa ben sperare per il futuro del regista giunto già al decimo lungometraggio.   

Vi segnaliamo in chiusura altri titoli degni di nota che potete approfondire tramite i daily in calce al pezzo: Yuni, The Apartment with Two Women, I Am What I Am, Hostage: Missing Celebrity e per finire The Assistant. Alla prossima edizione!

Marco Lovisato e Andrea Valmori
Maximal Interjector
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