Tre momenti particolari, onirici e sospesi tra sogno e realtà: la vita della piccola Ana (Cassandra Forêt) si slaccia lungo un arco temporale non definito, alle prese con un viaggio nell'infanzia che traccia solchi profondi e dolorosi sulla sua vita di donna adulta.



Il fulcro di un’opera come Amer risiede tutto nella sua estrema, devota anima derivativa. Il lungometraggio d’esordio del duo Hélène Cattet e Bruno Forzani non è semplicemente un “omaggio” al cinema italico di genere in forza negli anni Settanta, bensì (con tutti i limiti che ne conseguono) un rito sacrificale: la storia della protagonista è un incubo in tre porzioni che si cesella sull’immaginario generato da autori come Umberto Lenzi, Sergio Martino e soprattutto il Dario Argento di Suspiria (1977). Il travagliato percorso di Ana, sotto le ombre in perfetta geometria di un erotismo macerato e dolorante, ricrea gli stilemi di un cinema azzerando il proprio ego e indossandone tanti altri, in un processo ipertrofico di fervore reverenziale che annulla ogni tentativo di autonomia intellettuale. Il giallo, come stato mentale, prende il sopravvento, scatenando immagini e suggestioni in serie che accompagnano Ana e il suo complesso rapporto con l’infanzia, la crescita e il sesso, venato da terrori e frastuoni. Forse troppi. Operazione nostalgia con tutti i crismi; mera operazione, per l’appunto.
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