Durante gli anni '40 e '50, a Santiago del Cile il giovane Alejandro Jodorowsky (Adan Jodorowsky) vive un momento di grande fermento culturale, all'insegna di profondi cambiamenti artistici e letterari.



Seconda parte di un personalissimo dittico autobiografico che Jodorowsky aveva inaugurato con La danza della realtà (2013), Poesia senza fine porta avanti il racconto della vita dell’autore cileno con immutato spirito, concentrandosi sull'arco temporale nel quale il futuro regista de El Topo (1970) entrò in contatto con artisti più tardi diventati autentici colossi del mondo sudamericano. Jodorowsky dà l'idea, ancora una volta, di non aver messo da parte la sua fervente immaginazione e il film sguazza sornione tra trovate lisergiche e invenzioni a ripetizione, in un inesauribile anche se un po' stucchevole gioco al rialzo. La sensazione molto spesso è infatti quella di avere a che fare con un autore fin troppo senile e ripiegato su se stesso e sui propri autoreferenziali modelli anti-narrativi, incapace di dare autentica freschezza alla pellicola. Molto curata invece la confezione estetica: la sensazione è che stavolta Jodorowsky abbia avuto i mezzi economici necessari per supportare buona parte delle proprie ambizioni. Notevole e di grande impatto il finale, ma non può bastare per convincere fino in fondo. Presentato al Festival di Cannes nel 2016, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs.
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