Il trovatore armeno Sayat-Nova (Sofiko Chiaureli), vissuto nel Seicento, e la sua esistenza scandita da una serie di eventi cruciali, dalla tenera età fino all'ingresso in convento.

Il regista georgiano Sergej Paradžanov realizza uno dei film più rappresentativi della sua carriera, stilisticamente controllato e tendente all'immobilismo e alla fissità: una prassi decisamente consolidata per l'autore, che da tali contrassegni espressivi ha ricavato la sua identità e il proprio marchio di riconoscibilità. Nonostante tale apparenza imperturbabile, però, quello di Paradžanov non è certo un cinema ripiegato su se stesso, ma ogni immagine si apre a una suggestione in più, a un colpo di coda a effetto, a una soluzione dal grande impatto che irrompe sottobanco e che lascia in eredità allo spettatore il compito di assorbire tale urto e di ricomporne le coordinate dal punto di vista visivo e razionale. Percorrendo questo doppio binario, a metà tra cerebralità e ricercatezza estetica, il regista sfida frontalmente le convenzioni più grigie del cinema del suo tempo e fonde in maniera illuminante surrealismo e prosaicità popolare, sogni a occhi aperti e aspetti più ruvidi propri della vita quotidiana. Un'opera immersiva, da vivere come un flusso ininterrotto e nel quale perdersi senza remore o filtri aprioristici.
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