Dopo aver incontrato a cena una dozzina delle sue conquiste, tutte con lo stesso volto (Lydia Mancinelli), Don Giovanni (Carmelo Bene) tenta di sedurre una devotissima giovane (Gea Marotta). Benché ogni espediente appaia vano, dal teatro dei burattini al travestimento nei panni di Gesù Cristo, nondimeno la ragazza teme di essere rimasta incinta per aver condiviso la stessa poltrona del suo corteggiatore.

Prendendo spunto dalla novella di Barbey D'Aurevilly Il più bell'amore di Don Giovanni, Carmelo Bene costruisce come di consueto un monumento a se stesso e alla propria visione di cinema. Per restituire l'idea di decadimento, decomposizione e oblio ambienta l'azione in uno spazio invaso dall'oscurità e tagliato da luci caravaggesche, frantumando le sequenze in migliaia di inquadrature anche di pochi decimi di secondo. Allo stesso modo, spezza gli specchi che emergono dalle ombre e tramuta se stesso da marionettista a pupazzo, così come il bilancino che regge i fili diventa crocifisso. Tutto questo sforzo per inseguire una giovane né desiderabile né disponibile: quasi uno sfoggio di virtuosismo amoroso che duplichi quello di autore dello stesso Bene. Ostico come ogni film del regista, Don Giovanni è anche appesantito dal costante tono funebre, ma si riscatta con la consueta coerenza con cui mette al servizio di un'idea un immane lavoro su immagini e sonoro, con una generosità che non può lasciare indifferente lo spettatore.
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