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Senza lasciare traccia
Leave No Trace
Durata
108
Formato
Regista
Una giovane adolescente (Thomasin McKenzie) e suo padre (Ben Foster) hanno vissuto per molto tempo in un enorme bosco vicino a Portland, in Oregon, denominato Forest Park. Entrambi si ritroveranno però i servizi sociali alle costole e dovranno intraprendere un viaggio che scombussolerà per sempre le loro vite.
La regista Debra Granik, autrice di Un gelido inverno (2010), il film che diede la sua prima nomination all’Oscar a Jennifer Lawrence, torna dietro la macchina da presa a otto anni di distanza per raccontare una storia familiare ancorata a due personaggi che vivono ai margini della società. Dal Missouri ci spostiamo all’Oregon ma i tratti salienti del cinema della regista, a cominciare dal nodo cruciale dei padri e delle figlie, rimangono invariati, con personaggi angusti e succubi dei loro traumi (in questo caso anche bellici), alla ricerca di un’ultima oasi di salvezza possibile. Tali premesse finiscono però per ingabbiare Senza lasciare traccia in uno schematismo dalle gambe corte e dal respiro fiacco, che si fa scudo in maniera strumentale dei due outcast che rappresenta senza riuscire a fornire loro un disegno psicologico e un quadro di motivazioni sfaccettato e puntuale. Nonostante una buona mano nella regia e qualche momento più toccante e ispirato, il film si riduce così a un telefonato e non sempre stimolante spaccato, piuttosto risaputo, sul dissidio e il conflitto tra natura e cultura, tra purezza ed educazione, tra norme imposte dalla società e desideri eversivi. Un’occasione in parte persa e sfruttata solo a metà, nonché un passo indietro rispetto al più ruvido e centrato film precedente, che era galvanizzato anche da un meccanismo di genere al servizio del racconto della solitudine (qui praticamente assente). Presentato alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes 2018.
La regista Debra Granik, autrice di Un gelido inverno (2010), il film che diede la sua prima nomination all’Oscar a Jennifer Lawrence, torna dietro la macchina da presa a otto anni di distanza per raccontare una storia familiare ancorata a due personaggi che vivono ai margini della società. Dal Missouri ci spostiamo all’Oregon ma i tratti salienti del cinema della regista, a cominciare dal nodo cruciale dei padri e delle figlie, rimangono invariati, con personaggi angusti e succubi dei loro traumi (in questo caso anche bellici), alla ricerca di un’ultima oasi di salvezza possibile. Tali premesse finiscono però per ingabbiare Senza lasciare traccia in uno schematismo dalle gambe corte e dal respiro fiacco, che si fa scudo in maniera strumentale dei due outcast che rappresenta senza riuscire a fornire loro un disegno psicologico e un quadro di motivazioni sfaccettato e puntuale. Nonostante una buona mano nella regia e qualche momento più toccante e ispirato, il film si riduce così a un telefonato e non sempre stimolante spaccato, piuttosto risaputo, sul dissidio e il conflitto tra natura e cultura, tra purezza ed educazione, tra norme imposte dalla società e desideri eversivi. Un’occasione in parte persa e sfruttata solo a metà, nonché un passo indietro rispetto al più ruvido e centrato film precedente, che era galvanizzato anche da un meccanismo di genere al servizio del racconto della solitudine (qui praticamente assente). Presentato alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes 2018.
